Il difficile rapporto della Turchia di Erdogan con i diritti e le libertà sono noti. Dal fallito golpe in poi, la situazione si è via via deteriorata e i giornalisti sono diventati tra i bersagli preferiti per colpire il dissenso al regime con arresti e accuse spesso arbitrari e senza prove. Ma la guerra del sultano ai media nemici si gioca anche su altri piani, per risolvere - per così dire - il problema alla radice.
Il Consiglio dei ministri ha risposto all'ultima chiamata, approvando la parte riforma penitenziaria riguardante l'ampliamento del ricorso alle “pene alternative” al carcere. Ora il provvedimento deve completare il suo torturoso iter, passando nuovamente al vaglio delle commissioni parlamentari, le quali hanno 10 giorni per fornire ulteriori controdeduzioni, prima di tornare al Cdm per il via libera definitivo.
Le speranze sono ridotte al minimo. Solo degli inguaribili ottimisti possono pensare realmente a una svolta positiva. Per cui, salvo clamorosi colpi di scena, ancorché ben accolti, la riforma dell'ordinamento penitenziario non vedrà la luce prima del 23 marzo, giorno d'insediamento del nuovo Parlamento.
Dopo 32 giorni, passo dallo sciopero della fame allo sciopero del voto – ha dichiarato Rita Bernardini del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito -. È decisione personale, quindi per me profondamente politica, che non intende coinvolgere in alcun modo il Partito Radicale al quale sono iscritti trasversalmente candidati nelle più diverse liste che mi auguro siano tutti eletti.
"Abbiamo varato tre decreti attuativi della riforma dell'ordinamento penitenziario". Messe così, le parole di Paolo Gentiloni in conferenza stampa, battute dalle agenzie, farebbero, a una lettura superficiale, cantare persino vittoria a chi si batte da anni per la civiltà del nostro sistema carcerario. E invece no, non è andata come speravano Rita Bernardini e i radicali.
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