Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

18/11/24 ore

Quirinale. Una partita chiusa nel segno della restaurazione


  • Luigi O. Rintallo

Il vecchio leader lumbard, Umberto Bossi, ha fatto ricorso al proverbio napoletano sulla “fessa ‘mmano a ‘e criature” per descrivere l’inconcludenza dimostrata dal suo successore alla guida della Lega, Matteo Salvini, nel gestire le trattative per eleggere il Presidente della Repubblica. Un negoziato che, va riconosciuto, era complesso di suo sia per le circostanze in cui si verificava e sia per gli obiettivi divergenti che tutti i partecipanti si proponevano.

 

In primo luogo, vi era la divergenza circa l’effetto che ciascuno ricercava attraverso l’elezione del Capo dello Stato. Vi era chi ne voleva fare il trampolino verso elezioni anticipate e chi, al contrario, puntava non solo a concludere la legislatura ma anche a predisporre le condizioni per nuovi assetti, con la prospettiva di favorire il superamento del bipolarismo e il ripristino delle pratiche consociative per la formazione dei governi.

 

Va aggiunto che le divisioni sul voto attraversavano non solo i due schieramenti in campo nell’arena parlamentare, ma persino i singoli partiti che li componevano. Nel Centrodestra a favore del voto era Fratelli d’Italia, ma non FI e la Lega dubbiosa; nel Centrosinistra la divisione scorreva sia dentro il PD, con il segretario Letta che per lo meno un pensierino al voto lo coltivava mentre la maggioranza interna (e Renzi) non ne voleva sentir parlare, e sia i 5Stelle dove Giuseppe Conte era tentato dall’accelerazione al contrario di Di Maio.

 

Dopo la serie di votazioni senza esito, il mainstream informativo ha tripudiato nel poter apporre il cappello a cono sul capo del segretario leghista Salvini che, a nome della maggioranza relativa di “grandi elettori” afferenti al Centrodestra, ha trattato sui possibili candidati da far votare non riuscendo per giorni a trovare la quadra. Una conferma della smaccata partigianeria di molti commentatori e giornalisti che, a loro volta nel riferire sull’elezione presidenziale, spesso hanno fatto pensare più a sciampisti pettegoli o a camerieri solleciti verso chi – a parer loro – conta davvero.

 

Fatto sta che Matteo Salvini ha rivelato di girare a vuoto, anche perché non ha compreso sin da subito qual era la reale pregiudiziale del PD: nessun presidente che rischiasse di terremotare gli equilibri interni al partito. Persino un candidato con tessera PD non avrebbe soddisfatto tale pregiudiziale. Era forse immaginabile un Luciano Violante al Quirinale? No di certo, perché avrebbe comportato conseguenze imprevedibili. È la regola che attanaglia la vita pubblica italiana da decenni, quella per cui il fallimento di una banca del PD come il Monte dei Paschi di Siena si fa pagare alla collettività, così come la mancata soluzione delle questioni interne si scaricano sulle istituzioni e sul Paese nel suo complesso.

 

Sul fallimento del segretario della Lega ha ironizzato anche l’altro Matteo della politica italiana, Renzi. Il capo di Italia Viva gli ha attribuito una acribia politica e una sensibilità istituzionale pari a quella dei Gormiti, i pupazzetti venduti in bustine ai bambini. Durante la settimana del voto a Camere riunite, Matteo Renzi si è molto speso a dar mostra di sapere come muoversi in questa partita. Eppure, memoria vorrebbe che la causa prima dello stato di confusione in cui si è trovato il Parlamento va fatta risalire proprio alle scelte di Renzi.

 

Infatti, la legge elettorale da lui promossa era stata concepita proprio per garantire il mancato raggiungimento della maggioranza assoluta dei seggi. Consapevole di come il PD che allora guidava era in calo, operò  affinché nessun’altra forza politica o coalizione potesse ottenere il controllo delle Camere, obbligando al ritorno dei governi di coalizione decisi dopo il voto e non scaturenti dal voto.

 

Così è avvenuto e in quest’ultima legislatura si sono succeduti tre maggioranze di governo diverse, con Renzi a fare da regista delle ultime due: prima facendo nascere il Conte-bis sostenuto da 5Stelle-PD-Leu e Italia Viva, che ci ha regalato la disastrosa gestione della pandemia da parte del commissario Domenico Arcuri, e poi il governo di unità nazionale con Mario Draghi presidente del Consiglio.

 

Renzi e Salvini sono sovente percepiti da parte dell’opinione pubblica, per la loro storia e per motivi anche anagrafici, come figure potenzialmente in grado di contrastare la marginalizzazione della politica imposta dalla deriva delle corporazioni autoreferenziali (in primis la magistratura) e delle tecnocrazie finanziarie. Tale descrizione può anche trovare, in qualche occasione, dei riscontri – basti considerare come, ad esempio, hanno reagito rispetto ai condizionamenti esercitati dalle toghe sulle scelte della politica – e tuttavia, perché assumano il carattere di homini novi, la loro azione presenta un limite di fondo.

 

Nel sostenere le ragioni della riconquista dello spazio che spetta alla politica in una democrazia matura, lo fanno in una logica di eccessiva realpolitik: senza un orizzonte di profondità, davvero “altro” rispetto all’ordine esistente, preferiscono interagire con il residuale sistema di potere interessato soltanto a preservarsi. In tal modo si ripete una costante storica dell’Italia, dove sin dai tempi remoti non si è mai realizzato un ricambio di classe dirigente sostitutivo, ma sempre un connubio nel senso della continuità e del compromesso.

 

Questo limite è emerso anche durante la partita del Quirinale, che si è chiusa nel segno della restaurazione con la rielezione del Presidente uscente, subliminalmente predisposta dal “partito del Quirinale” rappresentativo appunto del ring, dell’anello ristretto delle oligarchie. Se la partita del Colle può dirsi formalmente conclusa con la conferma per altri sette anni di Mattarella, restano tuttavia aperti i giochi sui tavoli della politica, del governo e delle istituzioni.

 

Le ricadute di questa tredicesima elezione presidenziale sui partiti e sulla politica sono di natura varia e presentano anche aspetti contrastanti fra loro. Se è vero che l’opzione in favore della riconferma è cresciuta a partire dal desiderio dei parlamentari di procrastinare quanto più possibile la loro permanenza sui seggi, è anche vero che risponde alla volontà dei partiti di bloccare la salita al Colle di Draghi da essi interpretata come un definitivo commissariamento delle istituzioni repubblicane.

 

Quanto questa loro interpretazione sia fondata è da vedere, perché può valere anche la lettura alternativa che individuava nella collocazione di Draghi a capo dello Stato un modo per scalzare le incrostazioni di poteri ormai sclerotici e avviare un nuovo corso capace di rigenerare anche la dialettica democratica tra le forze politiche, oggi bloccata dalle delegittimazioni di un fronte contro l’altro.

 

Di certo, per il modo in cui è terminata, l’elezione quirinalizia ha sconvolto un po’ tutti gli schieramenti. Di alleanze e coalizioni passate o immaginate, restano solo pallidi simulacri: il Centrodestra vede Fratelli d’Italia defilarsi, nell’aspirazione di costituire un fronte conservatore che dovrà però scongiurare l’isolamento modello lepenista; il “campo largo” basato sull’alleanza fra PD e 5Stelle pare squagliarsi, dal momento che difficilmente qualcuno può riconoscere in Giuseppe Conte un “fortissimo riferimento delle forze progressiste”.

 

In tutte le forze politiche prevale la politique d’abord, fatta giorno per giorno e in vista soprattutto delle prossime contese elettorali. Un fattore che le indebolisce fortemente e, di fatto, le consegna ancora una volta alle iniziative costruite dal Quirinale, dove qualcuno si è preoccupato di far sapere di non considerare affatto il re-incarico a tempo come il predecessore Napolitano.

 

Inevitabili, sotto questo aspetto, le ripercussioni anche sul governo presieduto da Mario Draghi. Ci si divide fra chi ritiene che adesso sia più forte, perché meno condizionato dalle richieste dei partiti usciti malmessi dalla partita del Quirinale, e chi invece segnala come le cinquantacinque settimane che separano dal rinnovo del Parlamento ne fanno un governo elettorale, impossibilitato a prendere decisioni significative.

 

Decisioni che il Paese attende da tempo, tanto più che la situazione generale va aggravandosi non poco a causa dell’inflazione che galoppa, del blocco di fatto provocato dalle normative anti-Covid e dell’aumento dei costi energetici e di materie prime che rischia di vanificare quel po’ di incremento del pil registrato negli scorsi mesi.

 

È un fatto che proprio alcune determinazioni imposte dal Quirinale (sui ministeri della Salute e dell’Interno, ad esempio) hanno condizionato da subito la libertà d’azione del premier: la riconferma del Capo dello Stato, presentata da gran parte dei giornali come gradita e incoraggiata dal premier, potrebbe avere ben altre connotazioni e rivelarsi il pesante zavorramento teso a ostacolare ogni dinamismo governativo. 

 

Anche le conseguenze della rielezione di Mattarella sul piano istituzionale sono di non poco rilievo.  L’eccezione divenuta regola si inserisce nel solco pericoloso inaugurato dal ripetuto rinnovarsi degli “stati di emergenza” proclamati a seguito della pandemia. Rappresentano entrambi ferite dei principi costituzionali, che stentano a rimarginarsi e fanno scorgere spiragli su scenari inquietanti per la stessa convivenza civile.

 

La permanenza per tanti anni alla guida della Repubblica della stessa persona già di per sé ci avvicina  a esempi non certo commendevoli dal punto di vista democratico. Per di più il modo in cui vi si è pervenuti, dopo il rimbalzarsi di veti e la pretesa supponente di esclusive legittimanti, dà il segno di quanto si sia distanti dai criteri di una democrazia liberale

 

In tanti, tra opinionisti e studiosi, invocano oggi una elezione non più indiretta del Presidente della Repubblica, ma sarebbe persino controproducente se la carica mantenesse le attuali caratteristiche. Che senso avrebbe far eleggere dal popolo chi è definito garante dalla Costituzione vigente? Soltanto nell’ottica di una compiuta riforma in senso presidenzialista dell’ordinamento costituzionale acquisterebbe significato, altrimenti qualora dovesse passare solo come parziale modifica avrebbe ulteriori effetti destrutturanti, al pari della riduzione dei parlamentari approvata nel 2019. 

 

- Verso l’elezione del Presidente della Repubblica. Agenda storico-politica (1) di L.O.R.

- Il caso Leone: quando il presidente è un ostacolo per il partito del Quirinale. Agenda storico-politica (2) di L.O.R.

- L’angoscia dei partiti per Draghi al Quirinale. Agenda storico-politica (3) di L.O.R.

- Quirinale: partiti allo sbando senza soluzioni. Agenda storico-politica (4) di L.O.R.

- Quirinale: nessuno schieramento ha la maggioranza per eleggere il Presidente. Agenda storico-politica (5) di L.O.R.

- Quirinale: una scelta non determinante per il futuro di partiti liquefatti. Agenda storico-politica (6) di L.O.R.

- Quirinale. Il misurato Presidente Mattarella resiste anche agli elogi strumentali. Agenda storico-politica (7) di L.O.R.

- Quirinale. Centrosinistra e centrodestra senza i 505 voti necessari per l’elezione. Agenda storico-politica (8) di L.O.R.

- Quirinale. Il dossier giustizia è il più urgente per il nuovo Presidente. Agenda storico-politica (9) di L.O.R.

- Quirinale. L’analfabetismo politico e gli errori di ‘partiti incartati’. Agenda storico-politica (10) di L.O.R.

 

 

 


Aggiungi commento