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05/05/24 ore

Giustizia: i referendum sono una questione politica non di natura tecnico-giuridica


  • Luigi O. Rintallo

A poco più di una settimana dalla sentenza della Corte costituzionale che ha ammesso cinque su sei dei referendum sulla giustizia, non sappiamo ancora se essi si terranno oppure verranno “preventivamente” scongiurati ricorrendo, se necessario, all’espediente di anticipare le elezioni politiche. Eppure è già possibile delineare quali saranno le strategie comunicative tese a depotenziarli, con l’evidente obiettivo, caro agli assetti corporativi e di potere, di far mancare il raggiungimento del quorum della metà più uno degli elettori.

 

Lo spunto iniziale per la “narrazione” che i media si apprestano a proporre durante la campagna referendaria, lo ha fornito proprio la Consulta quando ha respinto il quesito sulla responsabilità civile dei magistrati. La rimozione della facoltà per i magistrati di far ricadere sullo Stato il risarcimento per le colpe commesse durante i processi era tema di immediata presa sulla sensibilità dei cittadini, perché rivelava un assoluto privilegio. Sottraendolo al pronunciamento  degli elettori, i giudici costituzionali hanno agito nell’intento di indebolire le motivazioni della partecipazione popolare al voto referendario.

 

Quanto la decisione assolva a un obiettivo più politico che giuridico, trova conferma nella debolezza della motivazione addotta dal neo-presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, il quale ha dichiarato che il quesito respinto, cancellando la rivalsa contro lo Stato così come prevede la legge attualmente in vigore, “avrebbe reso il referendum più che abrogativo innovativo”. Ora, è di tutta evidenza che ogni abrogazione – parziale o totale – comporta un cambiamento della norma, tant’è che ciò si verifica anche per gli altri cinque quesiti che sono stati invece ammessi e quindi è difficile credere che questa sia la ragione per la quale il referendum è stato rigettato.

 

La decisione presa in compenso è servita per impostare il plot che opinionisti e cronisti allineati predisporranno di qui alla prossima primavera, quando si voterà per i referendum. L’intreccio si dipanerà lungo tre direttrici essenziali: ridimensionare la rilevanza dei temi sottoposti al voto, sia nel merito che per il loro impatto sulla vita di ciascuno; dirottare l’informazione su questioni di natura tecnico-giuridica, allo scopo di disincentivare ogni interesse e rendere ostica la comprensione della posta in gioco con il voto; far ritenere prossime le soluzioni ai problemi della giustizia italiana, ben sapendo che così invece non è come dimostra l’immobilismo protrattosi quasi per tutta la vita della Repubblica.

 

Segnali preoccupanti che queste saranno le linee prevalenti nel dibattito sui referendum provengono persino dai comportamenti di chi ci si aspetterebbe essere fra i sostenitori del successo dei SI. Sorprende, ad esempio, quanto dichiarato dal presidente delle camere penali, Gian Domenico Caiazza, per il quale “così la vicenda referendaria assume un peso decisamente marginale, anche se comunque salutare”.

 

Se già a inizio campagna si parte relegando in una concessiva l’utilità dei referendum, significa dimostrare di non crederci poi molto… Del resto, il mondo dell’avvocatura non pare proprio abbia dimostrato chissà quale impegno nella fase della raccolta delle firme. A conferma che i lacci degli interessi corporativi forse sono ben più condizionanti della volontà di cambiamento.

 

Di qui alle prossime settimane va smontata la trama che mira a scoraggiare la partecipazione al voto dei cittadini. Per farlo la strada è una sola: ricollocare questa come ogni altra battaglia referendaria sui binari che le sono sempre stati propri, e cioè quelli di un confronto culturale e politico su prospettive e obiettivi da perseguire.

 

Così com’è stato per i referendum passati, quando con il voto sul divorzio si indicò non solo la conferma della legge Baslini-Fortuna, ma la possibilità di un’alternativa alla democrazia consociativa; oppure nel 1985 non si rinunciò solo ai punti di contingenza, ma si respinse il pan-sindacalismo che ingessava le possibilità di sviluppo.

 

Altrettanto vale per i cinque referendum sulla giustizia, il cui successo significa porre le condizioni per guarire la giustizia italiana dai mali che ne hanno compromesso le indispensabili funzioni di pilastro della nostra democrazia e lasciarsi finalmente alle spalle la oscura notte della legge di Lynch e del pan-penalismo che ha minato le basi stesse della convivenza sociale.

 

I SI a questi referendum possono davvero aprire una nuova stagione per la Repubblica, ripristinando le ragioni dello Stato di diritto dopo la barbarie del giustizialismo.

 

 


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