L’ultima elezione del Capo dello Stato nella cosiddetta prima Repubblica fu quella di Scalfaro. Nel 1992, mentre si era in piena Tangentopoli e sotto lo choc degli attentati mafiosi, fu Marco Pannella a puntare sull’esponente democristiano presentato come una sorta di Pertini cattolico. In seguito il leader radicale dovette ricredersi, tanto da giungere a promuovere una raccolta di firme per sfiduciarlo dopo le forzature impresse alla dialettica politica dal colle più alto di Roma.
Con Scalfaro cominciò il tutoraggio presidenziale, che mutò la natura della carica istituzionale. I governi del presidente, sostitutivi di quelli scaturiti dal voto o dall’aperto confronto parlamentare, furono inaugurati dall’incarico a Dini nel 1995, con il quale Scalfaro evitò quelle elezioni che aveva invece imposto l’anno prima a un Parlamento nel pieno delle sue funzioni, essendo uscito dal voto popolare del 1992.
Eppure l’adozione del sistema maggioritario, che prevedeva la presentazione di coalizioni che indicavano il candidato premier al corpo elettorale, avrebbe consigliato il ritorno alle urne.
Così non fu e si realizzò un grave vulnus democratico, destinato a ripetersi più volte durante i successivi venticinque anni. Da Monti a Draghi, si sono avuti governi privi di un chiaro mandato popolare, sostenuti da maggioranze parlamentari messe insieme dall’interno dei Palazzi o sotto la diretta regia del Quirinale, dove - dopo Scalfaro - ci sono stati sempre presidenti votati da assemblee di grandi elettori non coincidenti con la volontà maggioritaria del corpo elettorale, dato che i seggi parlamentari venivano distribuiti sulla base di leggi elettorali con premi di maggioranza.
La situazione della nostra massima istituzione è emblematica della crisi profonda in cui versa il sistema democratico italiano, sottoposto a tensioni che ne pregiudicano quasi irrimediabilmente il grado di rappresentatività e, al contempo, non assicurano una reale governabilità.
La stessa rappresentazione dell’attuale governo quale esempio di decisionismo è più di facciata che sostanziale: in fondo, nonostante il sostegno mediatico, non pare che il governo Draghi, nonostante il credito personale internazionale del presidente, sia nelle condizioni di assicurare - stante la contraddittoria coalizione - e di realizzare profonde e durature soluzioni strutturali su gran parte dei problemi del Paese.
Ci si avvia così alla prossima nomina del Presidente della Repubblica con la sgradevole sensazione che la politica nel suo insieme non riesca nemmeno a tracciare un percorso verso la meta. Come già osservato in altre occasioni, sarebbe opportuno convergere su un nominativo capace di essere eletto entro i primi tre scrutini, così da poterlo dotare della più ampia rappresentatività.
Ma non sembra proprio che le forze politiche siano propense a farsi carico di questa preoccupazione, che pure dovrebbe essere presente tenuto conto che quello attuale è un Parlamento in deroga dalla Costituzione dopo la riduzione dei seggi e che il Presidente di una maggioranza più virtuale che reale non è auspicabile in questa fase difficile della nostra storia.
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