Dopo le elezioni regionali, tenutesi fra il 2018 e il 2020, il centrodestra ha ottenuto la maggioranza in ben dieci regioni prima amministrate dal PD e dai suoi alleati (Molise, Friuli Venezia Giulia, Val d’Aosta, Abruzzo, Sardegna, Basilicata, Piemonte, Umbria, Calabria e Marche). Questo fa sì che la maggioranza dei delegati regionali elettori del Capo dello Stato è ora detenuta da FI, Lega e Fratelli d’Italia (33 su 58). Aggiunti ai parlamentari, essi impediscono stavolta al PD di scegliere da solo quale candidato imporre per il Colle, com’è invece avvenuto nelle precedenti votazioni presidenziali.
Preso atto della situazione, al segretario del PD Enrico Letta non resta che tentare di enfatizzare la situazione di eccezionalità e cercare di ripetere con Mattarella quanto già avvenuto col suo predecessore. Solo che la chance della rielezione rischia di rivelarsi fallace, non tanto per la dichiarata indisponibilità del Presidente in carica ma perché il gioco di Enrico Letta è ormai scoperto nella sua strumentalità. Pretendere di usare a proprio uso e consumo la carta dell’allarme sanitario, dopo che è stata usata per evitare o differire le elezioni (ma non il referendum costituzionale) o per impedire solo le manifestazioni degli avversari politici ma non le proprie, è una pratica ormai logora.
Anche l’ultima invocazione di una proroga dello stato di emergenza è sostenuta dal segretario PD più per intralciare la candidatura del premier Draghi che non per altro: a dimostrazione della insincerità delle presunte aperture di disponibilità manifestate durante un recente confronto con la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni.
Far perdurare l’emergenza servirebbe, in quest’ottica, a certificare che gli obiettivi per cui Draghi è stato chiamato alla guida del governo non sono stati ancora raggiunti e pertanto dovrebbe continuare il lavoro da Palazzo Chigi, scordandosi il Quirinale.
Si insiste così nella logica dell’ultima spiaggia, quando invece dovrebbe essere chiaro che in politica non esiste mai nessuna ultima spiaggia. L’indispensabilità di Draghi risuona negli interventi rilanciati dai media - siano quelli di giuristi o esponenti storici della finanza (come Giuseppe Guzzetti, ad esempio) - un puro pretesto rivelatore più degli interessati patemi del nostro capitalismo di relazione, che non del riconosciuto apprezzamento per la funzione svolta nel trarre fuori il Paese dal pantano in cui l’aveva condotto il passato governo giallo-rosso del Conte bis.
Del resto, la continua evocazione di chissà quale nefasta conseguenza per l’eventuale passaggio ad altro incarico di Draghi, ripete un meccanismo già operante, per esempio, quando si esprimeva estrema preoccupazione per ogni minimo scostamento dal parametro del 3% fra decifit e Pil. Oggi viaggiamo nell’ordine di un rapporto quasi quadruplo (11,8%) e non se ne legge in nessuna prima pagina.
Si può immaginare che lo stesso varrebbe nel caso in cui sul Colle dovesse salire l’attuale premier: per quale ragione dovrebbe prefigurarsi una qualche catastrofe, dal momento che proprio il nuovo incarico darebbe alle capacità dimostrate da Draghi nell’assolvere i due obiettivi fissati al momento della nomina a premier – definizione del PNRR e vaccinazione di massa – l’opportunità di spiegarsi in una prospettiva di più ampio respiro, sia temporale che di incisività istituzionale? E forse è proprio questo ad agitare i sonni di tanti.
La verità è che le forze politiche sono in uno stato di grande incertezza e vanno al voto per la Presidenza della Repubblica prive di un piano praticabile e che, soprattutto, dimostri di predisporre le condizioni per un rilancio del loro ruolo. Il rischio è che si finisca per ricorrere a opzioni approssimative, nel segno della provvisorietà o della retorica demagogica.
Candidare qualcuno tanto per farlo, quasi si trattasse di sbrigare una fastidiosa incombenza, significherebbe non cogliere l’occasione che il momento storico sta offrendo: fare di questa elezione presidenziale il primo passo per invertire la lunga parabola negativa che ha fiaccato, in quest’ultimo decennio, i caratteri della nostra democrazia.
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