-15% di biglietti venduti, +15% di accreditati, il doppio dei giornalisti stranieri, meno compratori di pellicole, tanto trionfante sesso e l'eco rimbombante di spazientiti buuu. Si può riassumere così la prolissa sentenza emessa dalla corte della Critica (nella sua accezione non solo squisitamente cinematografica) nei confronti della prima edizione del Festival del Film di Roma firmata Marco Muller.
Calato il sipario sulla tanto bistrattata kermesse fortissimamente voluta dal cinefilo Veltroni per allietare il vulgus capitolino e introdurlo alle meraviglie della Settima Arte, quel che resta è la solita polemica postuma, scontata e fine a se stessa sul senso intrinseco (e sfuggente) di questo Festival, e il poco celato malcontento per il trionfo italiano di uno dei film più brutti che la selezione (naturale) mulleriana abbia mai prodotto.
Superato con facilità l'iniziale stupore per la conquista del Marc'Aurelio d'Oro da parte del settantenne Larry Clark e dei suoi (soliti) adolescenti persi nel turbinio di sex and drugs and rock'n'roll, ciò che ha condannato i giurati capitanati da Jeff Nichols a essere considerati gli untori del morbo che sta riducendo in fin di vita il Buon Cinema (italiano), sono stati i premi consegnati a Paolo Franchi e Isabella Ferrari per, rispettivamente, la miglior regia e la migliore interpretazione femminile in 'E la chiamano estate'.
“Una scelta difficile, un film che ha fatto arrabbiare molti di noi e molti di voi. Un lavoro comunque che non lascia indifferenti, coraggioso, che può essere amato o odiato”, spiega la motivazione della giuria internazionale. E molto, troppo forse, è già stato scritto e detto sull'inutilità della pellicola in questione e sul suo 'violento' impatto con gli addetti ai lavori durante la proiezione e la conferenza stampa. Ma sostituire la letterla scarlatta della vergogna con quella più, chiedo venia, paracula del coraggio, ecco questo è veramente fuorviante e ipocrita.
Il film di Franchi non è un film 'coraggioso', ma la deriva solitaria di una corrente cinematografica che non riesce a stupire, emozionare e coinvolgere occhi, pancia e mente neanche con il più ingenuo (o falsamente tale) utilizzo di eccessi narrativi, stilistici o espressivi, come la sovraesposta nudità di una bella e fascinosa (ma pressocché muta) cinquantenne o i ménage à trois di depressi personaggi in cerca, probabilmente, di un vero autore.
Qualcuno che, con onestà intellettuale e sì, coraggiosa umiltà, restituisca un po' di profetica verità allo sguardo di questo nostro cinema decadente. Ed è in questa direzione, forse, che il Premio speciale e quello Opera Prima e Seconda consegnato a Claudio Giovannesi per il suo 'Alì ha gli occhi azzurri' può forse rappresentare il profilo di quella terra delle opportunità avvistata con commozione da un'esausta vedetta nella nebbiosa alba dopo la burrasca.
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