'Fuoco, fuoco!' ha iniziato a gridare qualcuno mentre sullo schermo un bianco accecante cancellava contorni, linee, ombre. Poi il sospetto, strisciante, che quella luce sparata DOVEVA significare qualcosa. Ma i minuti passano, lenti e sfiancanti, qualcosa si inceppa nella macchina del Cinema: nelle orecchie frasi che si ripetono, con tediosa e snervante cadenza; gli occhi, loro poi, traboccano di incredulità.
'E la chiamano estate', terzo e ultimo titolo italiano in Concorso nella prima edizione del Festival del Film di Roma targata Muller, scaraventa Paolo Franchi ('Nessuna qualità agli eroi') nel girone dei presuntuosi aspiranti 'autori' cinematografici, mossi da velleità psico-filosofico-artistiche e destinati per contrappasso a perdersi essi stessi nelle proprie ricercate e poco credibili ossessioni.
Anna e Dino (Isabella Ferrari e Jean-Marc Barr), quarantenni che si amano irrimediabilmente ma non fanno sesso perché fare l'amore e amare, per lui, sono due cose differenti: a lei bastano i momenti di tenerezza e di immobile felicità ritagliati nella loro (bianca, ma bianca bianca) casa, mentre Dino continua a sfogare le sue pulsioni tra le gambe di una prostituta o nei locali per scambisti.
Ancora Eros, ancora Thanatos, ma denudati da qualsiasi dignità: il regista bergamasco si appiglia con forza a volgari, voyeuristiche e rischiose scene di sesso, dimenticando totalmente il decoro e la ricchezza stilistica che solo la credibilità di una rappresentazione, seppur provocatoria e forte, può dare.
Franchi inietta nel suo pubblico il seme sterile di un morbo masochistico e senza sentimento: come il suo (orripilante) protagonista sceglie di soddisfare il suo impulso affondando in corpi estranei, vuoti, così il suo cinema appaga il proprio istinto manieristico ed edonista penetrando più e più volte, sistematicamente, il guscio vuoto del suo film.
Tra forzature eccessive nella sceneggiatura, dialoghi lenti e ripetitivi, la grossolanità oscena di alcuni nudi, a goffaggine nella recitazione e la rozzezza del doppiaggio, 'E la chiamano estate' è un film preoccupante: perché selezionato in concorso per un Festival internazionale, perché portatore di un becero e antiquato moralismo nella sua incessante volontà di scioccare, perché sintomatico della poca sensualità, della poca gioia e del poco rispetto con cui i cosiddetti 'autori' italiani continuano a copulare con un cinema in fin di vita.
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