'Alì ha gli occhi azzurri' ed è uno dei tanti figli di figli. Ma non scenderà da Algeri su navi a vela e a remi, perché lui è nato a Roma e vive ad Ostia. Qui, sul lungomare battuto dai venti d'inverno, ha inizio la storia di Nader, sedici anni, genitori egiziani e lenti a contatto a camuffare pagliuzze dorate negli occhi bruni.
Una storia già abbozzata in uno degli episodi di 'Fratelli d'Italia', ampliata e fatta evolvere in lungometraggio dallo stesso regista, Claudio Giovannesi, in lizza per il Marc'Aurelio d'oro in questa settima edizione del Festival Internazionale del cinema di Roma.
L'eco della Profezia pasoliniana rimane inalterato per tutta la durata di un film che, già dalle prime inquadrature, rivela la sua natura conflittuale e drammatica. Attraverso una regia quasi claustrofobica, un montaggio serrato e una fotografia fredda e opaca (firmata Ciprì), Giovannesi porta sullo schermo la solitudine dell'essere 'metà', la rabbiosa paura di una frattura identitaria che sembra inevitabile, il desiderio impellente della conciliazione tra ciò che si deve e ciò che si vuole essere.
Amore, amicizia, proibizione, integrazione sono gli ingredienti amalgamati dal regista nel rovente calderone dell'adolescenza: quello che ne viene fuori è un magma denso e viscoso che in sette giorni riveste di l'esistenza di Nader e di chi gli sta accanto, portando a ebollizione inquietudini e contraddizioni intimamente connesse con un nuovo tipo di società chiamata a fare i conti con culture, tradizioni, princìpi così diversi e contrastanti, eppure così uguali nel loro indifferente e indistinto reiterarsi in luoghi solcati da altri venti.
Proprio per questo a Giovannesi non rimane altro che diventare gli occhi di Nader, diventare odio e incomprensione, paura e tenerezza, purezza e incosciente cattiveria. Sostenetelo quello sguardo, sembra sillabare in maniera provocatoria il regista, diventate il marrone sotto il falso azzurro; e sembra possibile farlo, avere sedici anni e la pelle scura sotto il sole grigio di un litorale romano, probabilmente grazie alla realistica performance del cast artistico scelto da Giovannesi, composto esclusivamente da attori non professionisti (ognuno interpreta realmente se stesso).
Tutto il resto non conta: non c'è risposta, non c'è finale, non c'è soluzione. C'è una fune traballante tesa da qualcuno, sotto un cielo plumbeo che non appartiene a nessuno, sospesa sul cemento impastato con le colpe di tutti.
- 'Main dans le main', la metamorfosi del sentimento
- 'Centro Historico', un coro di voci per il Portogallo
- 'Spose Celesti dei Mari della Pianura', per dormire al Festival