Tema: cosa si evince dai premi elargiti al Festival del Cinema di Roma 2013? Svolgimento: cos'é il Cinema? Sintetico, dice il maestro; inevitabilmente, risponde l'alunno guardando fuori da una finestra. Vaga, la settima arte, snobbata, anoressica, l'abito della festa sbrandellato, la sterile nudità sfruttata ed esibita come feticcio di una magia che non c'è più.
Il neo-neorealismo a cui, Venezia prima, e Roma poi, hanno reso omaggio é solo la manifestazione di una presa di coscienza dolorosa e inerme: il contenitore è vuoto e non si può dar forma a quello che non c'è. Così un Leone e un Marc'Aurelio rivestono d'oro bocconi amari di quella minestra riscaldata a cui si attinge quando la fame è troppa e il cibo scarseggia: la realtà.
Ma la vita, è cosa nota, non può bastare e la verità che l'occhio indaga è passeggera come le mode. E ad esse si conforma. 'Tir', l'opera on the road di Alberto Fasulo che ha vinto l'ottava edizione della kermesse capitolina, sposa la nobile causa del Documentario - (in)seguendo sulle ruote di un camion l'esistenza di chi sulla strada consuma vita e sentimento - e tiene in caldo l'amante, quella Finzione di cui non si può fare a meno, necessaria tanto al corpo quanto all'anima.
Una scelta, quella del regista friulano, tanto intima quanto perfettamente aderente all'estemporanea logica – tutta italiana – di elevare la quotidianità a immiginifico, mitologico testimone di un'umanità che brancola sulle strade asfalatate da una noiosa Realtà.
E allora registi, critici e giurati appuntano con fierezza la medaglia al valore sul petto di un Cinema 'sociale', prostrato davanti a grandi e piccoli temi, coraggioso militante al servizio di una causa, dispensatore di immagini che denunciano, testimoniano, assolvono.
Ai margini dell'inquadratura rimane, fuori fuoco, quella fantasia di cui il Cinema si nutriva, quella pienezza di sensazioni che raramente omologa e sovente allenta gli spasmi di una consolazione obbligata. Accantonata quella drammaturgia dello sguardo costruita secondo gli 'antichi fasti', accantonati momentaneamente la narrazione, il montaggio, le musiche, gli effetti speciali, lo stupore, l'empatia in favore di una più espressiva e significativa riproduzione della Realtà, i Festival nostrani hanno deciso di trascurare il rapporto con le emozioni di chi il Cinema lo fa vivere: lo spettatore.
Puntando ad un' autoreferenzialità tanto ipocrita quanto inutile, si descrive la sindrome di Stendhal con una benda nera calata sugli occhi. E non basta una voce, per quanto suadente, appassionata o morbida, per colmare quel vuoto, quell'assenza di un corpo che si muove a ritmo del respiro o di una nota, di una pelle arrossata dal vento o dall'amore, di uno sguardo che accusa e perdona, ferisce e cura, sorprende e si arrende. Il mistero non appartiene alla realtà, lo sa bene Spike Jonze. Documentatemi questo, signori dei Festival.
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