Un trauma lungo 79 minuti. Ecco cos'è 'Manto Acuifero', in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma. Un film, quello dell'australiano - naturalizzato messicano - Michael Rowe, che parte da un buon intento e prende forma in una regia equilibrata e attenta, dimenticando totalmente di sviluppare l'intenzione, di dare forma a un qualsivoglia tipo di coinvolgimento, lasciando lo spettatore sospeso in una dimensione puramente – e fatalmente – estetizzante.
Caro ha sei anni, lunghi capelli neri e una grande tristezza negli occhi con cui affronta la separazione dei suoi genitori: la bambina non ama la casa dove è andata a vivere con la madre e il suo nuovo compagno e cerca rifugio in un lussureggiante giardino, negli insetti che lo popolano e in un pozzo in cui rintanarsi a sfogliare vecchie foto del padre.
Rowe la segue con estenuante attenzione, mettendosi letteralmente alla sua altezza, tagliando gli adulti, insensibili e sordi, dallo spazio visivo dello spettatore: un punto di vista interessante, certo, ma schiavo di un simbolismo che imprigiona le immagini, le svuota lentamente di significato e dilata in modo insopportabile il tempo filmico.
Caro, sua madre, il patrigno risultano investiti da un'apatia che anestetizza l'intera pellicola e il sottinteso, il volutamente taciuto, non riesce a risollevare le sorti di una storia di cui, purtroppo, ci si è dimenticati il cuore, il soggetto.
Il disagio della bambina diviene il disagio dello spettatore, e non per una ben costruita operazione di immedesimazione; l'anaffettività regna sovrana e non ci sono baci sulla fronte, quesiti infantili o pipì nel lettino che tengano: 'Manto Acuifero' si erge senza empatia a dito puntato contro un mondo, quello dei 'grandi', che non ha la forza di indagare, drammatizzando moralisticamente una storia a senso unico. Fino ad un finale – apice emozionale – scontato e fastidioso.
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