Dopo la debacle del Partito Democratico nel week-end elettorale, una convinzione ha iniziato a serpeggiare in maniera diffusa tra gli elettori ed alcuni commentatori politici: con Matteo Renzi sarebbe andata diversamente. Con Renzi, anzi, il Pd avrebbe vinto.
Chiaramente i “se”, nella vita come nella politica, lasciano il tempo che trovano. Ma vale la pena analizzare le ragioni alla base della disperata rievocazione del sindaco fiorentino, in quanto anch’esse espressione della confusione che attanaglia il centrosinistra.
Innanzitutto – si sostiene – in caso di vittoria alle primarie, Renzi avrebbe impresso una svolta storica alla linea politica del Pd, in chiave moderata e anti-massimalista, attraverso un sostanziale superamento del retaggio post-comunista. Il ritorno del partito a vocazione maggioritaria avrebbe implicato la rottura con Sel – autore di un modestissimo 3% – ma la conquista del consenso dei cosiddetti moderati tendenti a sinistra.
Ecco, “i moderati avrebbero votato Renzi” si legge in queste ore. Tuttavia quantificare questa fascia elettorale risulta un’operazione quasi impossibile, e a dimostrarlo è il risultato raggiunto da Monti, inizialmente accreditato addirittura del 20%. Appunto, Monti: in caso di vittoria di Renzi alle primarie, si sarebbe candidato? E Berlusconi?
Di fronte a così tante domande senza risposta – dei “se” nei “se” – insomma, parlare di un presunto voto moderato appare quantomeno fuori luogo. Le altre motivazioni a sostegno dell’immaginaria vittoria del rottamatore fiorentino riguardano la questione generazionale e la comunicazione politica.
Se sul primo punto sarebbe in effetti possibile ipotizzare un miglioramento elettorale del Pd, con il dirottamento dal M5S di una fetta di giovani spinti dal rinnovamento non solo anagrafico proposto da Renzi, sulla questione comunicativa c’è da riflettere.
C’è da chiedersi, infatti, – ammessa l’assoluta incapacità di Bersani di costruire una leadership credibile ed efficace – se l’elogio delle abilità propagandistiche di Renzi in realtà non avesse come scopo quello di far partecipare anche il Pd al festival delle promesse e delle sparate elettorali al quale abbiamo assistito, e dal quale il segretario si è correttamente sottratto.
Insomma, proporre un piano dismissioni da 140 miliardi di euro, o la riduzione di un terzo dell’evasione in 5 anni, così come ha fatto Renzi in modo a dir poco superficiale durante le primarie, è proprio ciò di cui avrebbe bisogno il centrosinistra per risolvere i suoi problemi esistenziali? Diremmo di no.
Ma aldilà delle valutazioni meramente numeriche, la questione reale, che ancora una volta sfugge all’attenzione dei fantasiosi militanti ed analisti, è quella che riguarda la necessità di un’evoluzione in senso liberale del centrosinistra, un’emergenza che più volte abbiamo avuto modo di trattare.
In effetti erano – e sono – tante le personalità che individuano in Renzi il principio di un cambiamento in tale direzione. Uno scenario che certamente ha un suo fondamento, tuttavia occorre constatare che quasi nulla nei propositi espressi dal sindaco di Firenze sembra suggerire l’avvio di una concreta stagione innovatrice e riformatrice.
In definitiva, la poca chiarezza mostrata su alcune importanti tematiche, dall’economia alla giustizia, oltre a svelare il lato conservatore del presunto progressismo renziano, contribuisce a lasciare più che mai aperta l’attualissima questione liberale. Anche “se c’era Renzi”.
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