(*) da Quaderni Radicali n. 106 (speciale marzo 2011)
Che cosa si deve intendere per questione liberale?. E perché poi “La sinistra e la questione liberale”? Scriveva in un suo saggio sul Partito democratico Biagio de Giovanni: “ … Per cultura liberale intendo la cultura del merito, dell’efficienza, della competitività, di una solidarietà non pelosa e assistenziale, di una distinzione-separazione fra le grandi concentrazioni di potere economico e bancario e la classe dirigente politica, di una scelta netta per una moderna democrazia liberale in grado di ridurre le torsioni illiberali della democrazia corporata italiana, la riduzione di una onnipresente sindacalizzazione, l’espansione di una cittadinanza attiva in una realtà piena di sudditanze, la chiara affermazione di diritti di libertà da vincoli corporativi che li stringono da ogni lato, una scelta occidentale non ambigua in un mondo che si divide e che chiede un nuovo senso di appartenenza … di fronte ai compromessi carichi di ambiguità che rischiano di rendere l’Italia un partner inaffidabile … “.
Ma ha senso parlare di liberalismo in questo tempo politico? “Come mai correnti di ispirazione liberale e democratica, – scriveva Mario Pannunzio nell’articolo di congedo che chiudeva l’esperienza del «Il Mondo», il settimanale dell’intellighenzia liberale - fedeli a una tradizione di pensiero di grande nobiltà, che trae le sue origini dal sorgere dell’Italia moderna e che ha avuto maestri come Cavour, Mazzini, Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola, hanno trovato e trovano così poca udienza nel nostro Paese e insieme una così unanime, agguerrita ostilità da renderle simili a pattuglie isolate di frontiera, quasi separate dal tessuto vitale della nazione…”.
Il direttore de «Il Mondo» registrava esplicitamente lo stato di minoranza e di emarginazione della cultura a cui apparteneva, lo collegava immediatamente con una determinata situazione politica (l’esistenza di grandi partiti di massa portatori di subculture tanto radicate nella storia italiana, quanto estranee ai Paesi occidentali più progrediti), ma avvertiva anche che questi caratteri “originari” della storia repubblicana avevano subito un ulteriore deterioramento nel clima degli anni Sessanta, che a Pannunzio sembrava lontanissimo dalla “cultura politica che negli anni della Resistenza aveva dato grandi esempi di intransigenza morale e di vigore intellettuale” (Roberto Pertici – «Ventunesimo secolo – rivista di studi sulle transizioni»).
“Con una punta di gobettismo (insolito in lui), stigmatizzava il ‘linguaggio disossato, enigmatico, conciliante [che] invade giornali, convegni, riviste e comizi’, la diffusione di una cultura permeata di sociologia, il clima di dialogo postconciliare fra cattolici e marxisti…”.
Purtroppo in Italia, a causa dell’emergere di forze illiberali e antidemocratiche quali il fascismo prima e il comunismo poi, abbiamo assistito al prevalere in ambito culturale di una visione ideologica e fortemente condizionata da falsi miti ed utopie che hanno lacerato spesso il fragile tessuto nazionale e apportato gravi carenze di coesione sociale.
Quando oggi sentiamo che il nostro è un capitalismo incompiuto; che sarebbe in atto uno scontro tra vecchi e nuovi protagonisti del mercato finanziario, non possiamo non sorridere pensando al carattere strutturale, al Dna sociologico dei “capitalisti” italiani, figli del capitalismo di relazioni. Se tutto il sistema del welfare è entrato in crisi, il caso italiano appare come quello che condensa in sé le distorsioni più tipicamente clientelari e parassitarie. Governabilità e crisi di rappresentanza politica, che sono alla base della incapacità ad organizzare e dirigere la nuova complessità sociale derivata dalle trasformazioni economiche, nel nostro caso non trovano soluzioni né sbocchi positivi poiché gli attori della politica e della finanza sono rimasti immutati nel tempo, si sono auto-perpetuati attraverso modelli antidemocratici e cooptativi che hanno reso asfittica la stessa dinamica e dialettica sociale e politica, fino alla attuale paralisi.
Dove sono da cercare le ragioni della “scheletricità” liberale del nostro sistema? Abbiamo già avuto modo di descrivere su queste pagine un’analisi dello sviluppo della democrazia fittizia italiana. Nella “prima Repubblica” la Democrazia cristiana occupava e egemonizzava il governo e il potere, il Partito comunista italiano copriva tutto quanto era fuori dall’orbita di controllo dello Scudo crociato. Era il sistema del “bipolarismo coatto”, del consociativismo appunto. I legami internazionali con l’Urss, la sua dipendenza anche economica, bloccava l’allora partito di Botteghe Oscure da qualunque funzione di reale alternativa. Impedire ogni fermento che rompesse le “armonie” del cosiddetto “partito di Yalta” era l’imperativo categorico dei cosiddetti gruppi dirigenti italiani a cui spettava la “gestione” del welfare nostrano fatto di distribuzione del debito pubblico crescente e senza controllo, di spartizione lottizzata di enti, sottopotere, banche e soprattutto tv di Stato, che nella logica della spartizione lottizzata aveva i suoi massimi conflitti nella “fastidiosa” rendita di posizione socialista che appariva troppo famelica nella suddivisione di dirigenti, direttori, funzionari, giornalisti … fino agli uscieri.
Quando – scrivevamo nel 1999 su «Quaderni Radicali» – si tenta di individuare una transizione per una riforma del welfare, si scopre che in Italia non si tratta solo di definire le ragioni della crisi dello Stato assistenziale, ma di dover fare i conti con quella che si può definire la “società delle conseguenze” che pretende di affrontare la crisi avendo completamente saltato la fase di un autentico libero mercato …
Il preteso ricambio della classe dirigente (si fa per dire …!) è avvenuto in Italia all’interno di un sistema politico arcaico, in cui le dialettiche sono state solo il prodotto di faide di palazzo e mai di un processo di confronto/scontro democratico capace di apportare una evoluzione realmente consapevole da parte dell’intera collettività.
Ma cosa si deve intendere per società delle conseguenze? È la società delle contraddizioni ingessate e mai risolte, che contiene in sé la crisi del welfare e il blocco di tutte le sperimentazioni di un’evoluzione in chiave autenticamente liberale e democratica. È evidente che dentro questi schemi la crisi politica non ha trovato e non troverà soluzioni, che la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni si ridurrà ulteriormente e che i caratteri di frammentazione dilateranno ancor di più la crisi della politica.
Da oltre dieci anni (vedi «QR» 61/62/63) sottolineiamo che l’Italia non ha un solo strumento in grado di rifondare i nuovi principi e i nuovi valori su cui basare gli assetti sociali futuri. E questo, come appare sempre più evidente, la espone a tutto il gioco delle contraddizioni che la globalizzazione economica ha prodotto e continua a produrre. Paese senza effettivo libero mercato, pre-moderno, nell’atteggiamento velleitario, sommario e vessatorio, non ha preparato luoghi di riforma e inoltre fa sperpero di roboanti espressioni di onestà, di diritto, senza assicurare un’oncia di legalità e di regole effettive.
Non esiste un solo settore del nostro sistema – la giustizia, l’economia, la sanità, la scuola, le istituzioni bancarie, i servizi, l’informazione pubblica e privata – che non sia parte della crisi, proprio perché il Paese non ha fatto i conti né sembra volerli e poterli fare con la propria sostanziale arretratezza e mancanza di regole. Ma le fratture che ci stanno davanti a chi sono da ascrivere? Se il sistema dei partiti non è in grado di rispecchiare in modo naturale e spontaneo le frantumazioni sociali, di analizzarle e di ricomporle è perché esso ha mantenuto una sostanza profondamente illiberale che ha visto nell’individuo, nella sua autonomia, nella sua libertà, nella sua responsabilità il nemico da abbattere e non il soggetto sul quale fondare le speranze del cambiamento e la compattezza del corpo sociale.
L’alternativa resta sempre più circoscritta tra una autentica rivoluzione liberale e un drammatico scivolamento verso un declino che può avere risvolti autoritari. Gli attuali mandarini, di destra e di sinistra, mancando di ogni vera coscienza liberale, appaiono i simulacri di una burlesca Corte di Parma.
Qual è comunque lo scenario politico-istituzionale, economico e sociale di un’Italia che si presenta complessa e complicata. Il suo tessuto sociale è parcellizzato, la pendolarità e l’alternanza fra gli status sociali rende i ruoli instabili e di difficile controllo. L’intero Paese è sempre a un passo da una crisi sociale di ampie proporzioni.
La delegittimazione del sistema politico ha raggiunto livelli estremi tanto che lo stesso appare sempre di più ai margini delle scelte e della definizione della agenda politica. Una sorta di sottosistema che compartecipa, con complici potenti, produttori di senso per le masse (famiglia, Stato, mass-media ecc.), alle funzioni formali, ma è ormai privo della capacità di indirizzare proprio le scelte, di fare “democraticamente” da timoniere; per non parlare inoltre delle pesanti conflittualità interne con le quali deve fare i conti.
Da una parte le corporazioni, cresciute sotto il regime partitocratico, oggi potenti ed ormai auto-referenziali, poco disponibili quindi a risistemarsi nell’ambito del potere e del suo equilibrio, con autonomia legittima, ma con quel ruolo che la civiltà democratica fissa loro. Dall’altra parte l’impotente, ma pur sempre onnipresente, sistema partitocratico che, dopo aver adattato a sé la società civile, nel suo ritmo di complicità e di eversiva ridefinizione del lecito e del legale, oggi è alla frutta. Eppure un sistema politico-partitico che ha sempre avuto nella sua continuità consociativa, la funzione di controllo e di riduzione della complessità; che ha provveduto ad anestetizzare il conflitto e generato frammentazione sociale ed assistenzialismo clientelare, debito pubblico ed irresponsabilità, col conseguente abbattimento delle deontologie professionali, oggi non riesce a controllare questa stessa frammentazione; né tanto meno è in grado di predisporre agenzie compensative della disgregazione sociale.
È un sistema cortocircuitato, essiccato. La crisi economica generale si riflette in Italia con aspetti particolari e imbarazzanti. Le politiche praticate dal Ministero dell’Economia sembrano decisamente punitive dei piccoli e medi imprenditori (con ciò contraddicendo la presunta volontà del governo di centrodestra) oltre che di garrotamento del Sud; la palude del parassitismo che permane, i “topi sul formaggio”, gli assetti politici polverosi e ipocriti, oggi come ieri resistono, anche se talora oscillano tra paura, reazioni imbarazzanti, ricatti.
Il crollo dell’immagine culturale del sistema, schiacciato tra demagogia e cialtroneria, malaffare e ricatto, genera temibili rischi. Tutti i segni che la politica attuale produce sono ancorati a un modello cadaverico e ricattatore, fatto di finzioni e di evidenti sgangherate truffaldinerie. Per citare tra gli altri il caso giustizia, se è assolutamente vero che la maggioranza di centrodestra è una rabberciata aggregazione schiacciata sulla difesa dei problemi giudiziari del capo del governo, priva di qualunque senso politico progettuale, organizzata secondo modelli medioevali, senza una qualunque articolazione democratica, non si può non rilevare che il centrosinistra, al di là dell’imbarazzante presenza di un dipietrismo a cui il Partito democratico ha fornito la piattaforma di un ruolo strategico incomprensibile, è però schiacciato nel ruolo di braccio politico di quelle procure leader del giustizialismo nostrano. La tendenza del legislatore – in chiave squisitamente demagogica – a disciplinare sempre più minuziosamente ogni comportamento degli individui ha ridotto il cittadino al rango di ospite di una casa di correzione, in cui anche la più insignificante infrazione, si prefigura come crimine penalmente rilevante, mentre i veri crimini restano impuniti nel vortice della contro-produttività drammatica della giustizia. Si tratta di un processo di criminalizzazione della vita collettiva, che nulla ha a che vedere con la sicurezza, che va avvitandosi su se stesso, assumendo connotati di autofagia.
E la sinistra dov’è su questo terreno squisitamente liberale? Schiacciata tra la subalternità a lobbies di ogni genere (finanziarie, giudiziarie, informative e quant’altro), umilianti retromarce e sconfitte politicamente pesanti, nella speranza di poter poi sottrarsi alla futura egemonia delle alternative inesistenti fornite da gruppi di interesse che sono perfettamente speculari ad una maggioranza di destra priva di qualsiasi capacità e moralità. Questo Paese ha urgente bisogno di un’alternativa, che non si limiti ad una rotazione, o a una alternanza di mero potere. Un’alternativa che deve comportare l’evoluzione di una totale revisione e di un profondo rinnovamento: che significhi in termini culturali, politici, economici, sociali un reale cambiamento, una vera riforma dei modelli comportamentali della classe cosiddetta dirigente, ma degli stessi cittadini.
Insomma di una rivoluzione liberale. È questa la questione liberale a cui abbiamo accennato. È questa la ragione di un serrato processo di riletture della sinistra e della questione liberale. Se la speranza del cambiamento è puntata a sinistra, per quello che la situazione storico-politica italiana ha storicizzato, se la destra non ha nella sue botti che “vino inacidito”, non si può negare che la sinistra, è quella oggi rappresentata dai residui di gruppi dirigenti consolidati che non hanno certo brillato per democrazia e cultura liberale. Quei gruppi dirigenti che, ancora Biagio de Giovanni descriveva efficacemente, sono figli di un “nuovo compromesso che rende possibile alla sinistra stessa di non fare i conti con la propria storia e al cattolicesimo politico di rinchiudersi nella vena di un populismo ambiguamente post-dossettiano…”.
Un tempo, oramai lontanissimo, lo scenario internazionale era occupato da quello che veniva definito il “bipolarismo del terrore” e i gruppi dirigenti nel nostro Paese si formavano per cooptazione per soddisfare le esigenze che assicuravano questo ordine internazionale. Ciò garantiva il ruolo geo-politico dell’Italia, in uno schema che vedeva la democrazia italiana sostanzialmente bloccata. Quando, con la caduta del Muro di Berlino, ci siamo trovati privi di questo ruolo di frontiera, sono emerse le incredibili debolezze del sistema Italia, i cui caratteri di democrazia matura erano tutt’altro che credibili, nei comportamenti delle istituzioni, dei soggetti sociali, politici e economici, e in misura concreta assenti in larga parte dei cittadini, vittime di un “ammorbamento” che ne aveva attenuato il senso critico e la consapevolezza responsabile.
Oggi non si tratta di conservare un ordine sociale – anche e in particolare di fronte ai sommovimenti che stanno accadendo nel mondo – ma di creare condizioni sociali che tutelino la libertà personale e la diversità culturale.
“ … A partire dalla metà del XIX secolo, sono occorsi grandi sforzi ai pensatori e ai politici europei per capire che non stavano più vivendo le conseguenze della Rivoluzione francese, ma la nascita della società industriale e dei suoi conflitti, allo stesso modo oggi dobbiamo compiere una difficile mutazione, se vogliamo essere attori di un mondo in trasformazione …”.
Questo ci indicava Alain Touraine in uno dei suoi efficaci saggi. Occorrono forze autenticamente liberali e democratiche. Il punto decisivo resta dunque nella sinistra post-comunista il non aver fatto i conti con la propria storia. Oltre le invettive antiberlusconiane, qual è il programma economico, sociale, culturale della sinistra che può essere offerto agli italiani come vera alternativa? Molto spesso non si dice nulla per non scontentare gli interessi corporativi che presiedono certi settori sociali, oppure si dicono cose diverse per evitare conflitti.
Ma se annullare la cultura liberale, laica, socialista radicale può dare la sensazione di cementare, in realtà neutralizzando una cultura di governo liberale si finisce per rendere la sinistra inefficace e subalterna a tutte le lobbies nazionali e internazionali.
(*) da Quaderni Radicali n. 106 (speciale marzo 2011)