Giunti alla vigilia delle primarie del centro-sinistra si può fare un po’ il punto sia sulla campagna, sia sul modo in cui le candidature hanno corrisposto alle esigenze di una politica sempre più in difficoltà di fronte alla carica di un’anti-politica dai toni liquidatori.
La campagna ha giocato, come si è visto, sulla dialettica vecchio/nuovo, ma alla fine ha mostrato di avere il fiato corto: non si risolvono i problemi del centro-sinistra italiano agendo soltanto su questa leva. E difatti ha perso mordente. Anche perché, come da tempo sosteniamo in ogni occasione, il nodo da sciogliere resta quello della “questione liberale”, in primo luogo all’interno del PD. Un partito che ha in definitiva preferito proporsi come il portato delle formazioni pre-esistenti (Pci e sinistra democristiana), anziché proiettarsi verso prospettive dinamiche capaci di intercettare davvero le domande di cambiamento pur presenti nella società.
L’essere rimasti vincolati a una strategia consociativa definitasi oltre 40 anni fa, ha comportato la difesa di un assetto sindacal-burocratico-corporativo (responsabile non secondario dello stallo attuale), senza compiere quella operazione verità propedeutica alla promozione di un vero ciclo riformatore in senso liberale del Paese. Di tutto questo non si è parlato durante le primarie.
L’alleanza riunita attorno a “Italia bene comune” ha lanciato la sua proposta agli elettori procedendo per mistificazioni politiche, affidando per esempio la “copertura” delle istanze socialiste e libertarie al segretario del Psi Nencini. Niente di veramente nuovo: una operazione tipo “indipendenti di sinistra” malamente ritinteggiata.
Se poi guardiamo ai candidati risalta subito l’assenza di una pur vaga rappresentanza dell’indirizzo riformatore e liberale. Lo stesso Renzi, con la sua proposta volta ad accentuare il distacco dal retaggio e dalle zavorre di una sinistra attardata su modelli superati dalla storia e dalla realtà, specialmente nella fase finale, non ha fatto compiuta chiarezza su obiettivi e mezzi che dovrebbe perseguire una politica riformatrice.
Le ambiguità non sono mancate e questo non è certo stato un bene. Non è stata pronunciata una parola chiara né sulla contrattazione di lavoro (sì a Ichino, no a Marchionne: ma in concreto dove si guarda?), né sui cambiamenti da introdurre in una giustizia che pare crogiolarsi nell’auto-delegittimazione dell’irresponsabilità e della parzialità. E tanto meno sulla centralità da attribuire all’individuo, entro la società globalizzata.
Non si poteva certo pretendere di far proprie le letture formatesi presso altre culture politiche, ma almeno era auspicabile un maggiore sforzo verso la comprensione che a inseguire la difesa dei vested interests delle corporazioni protette, si finisce per collocarsi inevitabilmente sul versante conservatore. Anche se poi ci si definisce “progressisti”.
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