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17/11/24 ore

Taiwan, un lungo cammino verso la piena sovranità



di Giorgio Prinzi

 

In questi anni Agenzia Radicale è tornata più volte ad occuparsi dei difficili annosi rapporti tra le “due Cine”, quella continentale con capitale Pechino, la Repubblica Popolare Cinese, quella insulare con capitale Taipei, la Repubblica di Cina nell’Isola di Taiwan. Ề uno dei retaggi della contrapposizione ideologica che ha diviso il mondo nell’incompiuto nuovo ordine geopolitico scaturito dalla Seconda Guerra Mondiale, che ha, al contrario, ingenerato problematiche ed incongruenze cristallizzate nel tempo e da cui ancora oggi è difficile liberarsi.

 

In realtà si era giunti ad una pericolosa situazione di stallo, con posizioni fortemente divaricanti, con Taiwan ormai prossima a rivendicare la piena sovranità ed a dichiarare la sua indipendenza e con la Cina Continentale quanto mai decisa a ricondurre, anche con l’uso massiccio della forza militare, sotto la sua piena giurisdizione quella che Pechino considera una sua provincia ribelle, parte integrante della Madrepatria. Al contrario, Taiwan ritiene essere la legittima erede della rivoluzione repubblicana che agli inizi del secolo scorso fece seguito, instaurando la repubblica, alla lunga tradizione dinastica imperiale. Ma andiamo con ordine, ricapitolando per sommi capi la storia.

 

La Repubblica di Cina, di cui Taiwan si proclama erede e continuatrice, venne fondata a Nanchino il 10 ottobre 1911, subentrando all’impero dinastico, ma venne scalzata e costretta a lasciare il continente dalla vittoria dei comunisti guidati da Mao Tse-tung, che il 1 ottobre 1949 proclamarono la Repubblica Popolare Cinese, costringendo i suoi esponenti a trovare rifugio nell’Isola di Taiwan, dove Chiang Kai-shek, che guidava i “nazionalisti” sconfitti del Kuomintang, diede ordine di concentrare quanto era riuscito a sottrarre alla vittoriosa avanzata di Mao, dalle riserve auree ai resti della marina e dell’aviazione e, soprattutto, le vestigia culturali della millenaria civiltà custodite oggi nel National Palace Museum di Taipei, fortunatamente in questo modo sfuggite alla furia “talebana” devastatrice delle Guardie Rosse, che nel periodo caldo della cosiddetta rivoluzione culturale maoista, tra il 1966 ed il 1968, intendevano distruggere ogni antecedente testimonianza culturale.

 

Pechino, capitale della Repubblica Popolare Cinese, e Taipei, capitale della originaria Repubblica di Cina a Taiwan, continuarono con caparbietà, in clima di guerra fredda e di contrapposizione ideologica tra blocchi, a rivendicare entrambe la rappresentanza dell’intera Cina, con Taiwan che, in continuità con l’originaria repubblica di Nanchino, conservava il seggio presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite, con Pechino che riteneva invece l’Isola una sua provincia ribelle da ricondurre prima o poi nell’ambito della sua giurisdizione, anche con il ricorso alla forza militare, all’epoca inadeguata allo scopo.

 

La situazione di fatto si ribaltò nel 1971, quando, dopo un preparatorio viaggio segreto in Cina di Henry Kissinger, gli Stati Uniti d’America riconobbero la Repubblica Popolare Cinese, disconoscendo la Repubblica di Cina a Taiwan; di conseguenza e per effetto domino a seguire da parte di altri Stati, il 23 novembre 1971 Pechino prende possesso del Seggio presso le Nazioni Unite sino ad allora detenuto da Taipei.

 

Da quel momento comincia la rincorsa di Taiwan per riconquistare lo spazio perduto, sia rivendicando il diritto a sedere alle Nazioni Unite, sia, con realismo pragmatico, mettendo in atto un’azione passo dopo passo per ottenere credito, accoglienza e surrettizio riconoscimento in sedi di cooperazione internazionale, in materie quali la sanità, l’ambiente, il commercio per le quali il pragmatismo e le esigenze reali influiscono più delle ideologie.

 

Una strada non facile che ha avuto momenti stridenti di contrasto tra le due Sponde dello Stretto, quello che divide Taiwan dalla Cina continentale, sino a pervenire ad una situazione di “congelato” compromesso nel 2008 con l’insediamento a Taipei del Presidente della Repubblica di Cina a Taiwan Ma Ying-jeou, che trovò una formula di reciproco soddisfacimento con Pechino nota con la dizione dei tre no”: no all’unificazione, no all’indipendenza e no all’uso della forza, che consentirono di aprire una stagione di intensa collaborazione tra le due capitali, liberalizzando i collegamenti e i movimenti delle persone tra le due Sponde dello Stretto che sino ad allora avvenivano in modo parossistico.

 

E' questa la fase in cui Agenzia Radicale ha iniziato a seguire puntualmente l’evoluzione dei rapporti tra Pechino e Taipei che apparivano improntati alla logica della non violenza e del pacifico confronto, che tuttavia ha vissuto momenti di forte contrapposizione di interessi come nel 2012 quando sorse un contenzioso a tre, tra Cina Continentale, Giappone e Taiwan in relazione a tre sperdute e dimenticate isolette nel Mare Cinese Orientali, che all’improvviso erano diventate strategiche per la scoperta nella loro piattaforma sottomarina di ingenti risorse economiche.

 

La vicenda condotta con razionale pragmatismo ed approccio pacifico, persino apparentemente conciliante, da parte del Presidente Ma condusse alla fine ad una svolta epocale con un inaspettato avvicinamento di Taiwan al Giappone, come scrivevamo «… Questa volta il pragmatismo sulle cose reale, sugli interessi economici contingenti è stato condizionato da altre considerazioni, probabilmente dalla comune preoccupazione di Taiwan e Giappone nei confronti della politica egemone della Cina continentale che metteva a repentaglio da un lato l’indipendenza e la sovranità di fatto dell’Isola, dall’altro poneva il Giappone sotto sindrome da accerchiamento con il risultato di spingere entrambi le parti a superare le storiche contrapposizioni ed a siglare un accordo congiunto dal quale veniva tenuta fuori la Cina continentale».

 

 

Oggi, nella fase terminale del secondo mandato, per costituzione non oltre reiterabile, del Presidente Ma, ci troviamo di fronte ad una nuova svolta, ad una accelerazione di passo verso il riconoscimento internazionale e la riconquista di un seggio alle Nazione Unite da parte di Taiwan. Dopo una serie di accordi bilaterali di Taiwan con Paesi Membri dell’Unione Europea ha preso l’avvio un dialogo ufficiale con le Istituzioni europee e la repubblica di Taiwan, che, di fatto, è già un riconoscimento comunitario, di grande portata politica internazionale, lo sarà inequivocabilmente quando gli Accordi ai quali si lavora verranno ufficialmente siglati. L’Unione Europea non surroga l’Onu, ma l’aspetto politico della negoziazione bilaterale e l’ormai prossima firma di Accordi è di importanza capitale.

 

In questo clima, apertamente e senza contorcimenti diplomatici, è stato dato l’annunzio ufficiale delle trattative in corso, che prelude alla sigla di accordi ufficiali a breve scadenza; giorno 29 settembre il Presidente della Repubblica di Cina a Taiwan si è collegato in videoconferenza con Membri del Parlamento Europeo riuniti nella Sede di Bruxelles, trattando ad ampio spettro tutte le tematiche affrontate negli oltre quarant’anni del lungo cammino verso la riconquista della piena sovranità.

 

Su iniziativa dell’Ufficio di Rappresentanza di Taiwan a Roma, in collaborazione con la Professoressa Rosa Lombardi, docente di Lingua e Letteratura Cinese all’Università Roma Tre, un selezionato numero di esperti, tra cui chi scrive, ha potuto assistere dalla Sala multimediale del Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere del terzo Ateneo romano al collegamento in diretta.

 

Al tavolo della Presidenza, l’Ambasciatore di Taiwan a Roma Stanley Kao ed il suo Vice Antonio Hsieh, l’Ambasciatore dell’Ordine di Malta Camillo Zuccoli, i Senatori Lucio Malan e Sergio Divina in rappresentanza del Gruppo Interparlamentare di Amicizia tra Italia e Taiwan, la Professoressa Rosa Lombardi, ospitante, l’Ingegnere Giorgio Prinzi, Membro di Arceit, l’Associazione per le relazioni culturali ed economiche tra l’Italia e la Repubblica di Cina (Taiwan), sin dalla sua fondazione, i quali hanno dal loro punto di vista commentato l’evento.

 

Chi scrive, libero da condizionamenti diplomatici e/o istituzionali, ha potuto mettere in evidenza alcuni aspetti che notoriamente sono poco graditi a Pechino, quali le difficoltà di una fase di transizione che ora non è più solo economica, ma diviene politica e sociale soprattutto sul fronte interno, dove cominciano a farsi sentire rivendicazioni di diversa natura, da quelle economiche per le sperequazioni tra le province, a quelle etniche, culturali e linguistiche, con forte impatto quelle della irrequieta componente islamica, a quella di maggiore democrazia e migliori condizioni sociali a cominciare da rivendicazioni sindacali.

 

In questo contesto Pechino non è in grado più di arroccarsi su posizioni di tetragona intransigenza e deve affrontare con pragmatico realismo la questione di Taiwan, di fatto già stato sovrano a cui manca solo il riconoscimento internazionale univoco, che è oggi persino il maggior investitore “estero” nell’economia cinese continentale, che trova a dovere fare i conti con fenomeni di rallentamento della smisurata crescita di cui sinora ha goduto.


Ricalcando un noto detto cinese, potremmo, dire in relazione ai rapporti tra le due sponde dello Stretto di Taiwan, “siediti tranquillo su una sponda e prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico”, quello del comunismo cinese continentale, oggi defunto sotto il profilo economico, ma ancora persistente sotto quello del regime politico, che tiene insieme con la forza e con il soffocamento della dialettica democratica una intelaiatura di potere sotto altri aspetti logora ed in profonda crisi, tanto che taluni analisti internazionali ipotizzano, in un futuro più o meno lontano, una possibile disgregazione della Cina Continentale in almeno sei entità autonome diverse.

 

Qualora ciò avvenisse realmente le regioni economicamente più prospere e progredite, dove Taiwan è già presente economicamente ed imprenditorialmente in maniera massiccia, potrebbero passare sotto l’influenza dell’Isola pienamente sovrana, se non addirittura federarsi con essa.

 

E' un aspetto strategico di debolezza politica che potrebbe indurre la Cina Continentale ad un’azione politica prudente e possibilista, a non radicalizzare una situazione che potrebbe avere un’accelerazione del processo con effetto domino, nonostante di facciata Pechino faccia sfoggio di potenza e disciplina militare con spettacolari parate e con il dispiegamento di un importante contingente militare nella lotta allo Stato Islamico a fianco della Federazione Russa.

 

 


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