I risultati delle recenti elezioni politiche giapponesi che hanno visto la schiacciante vittoria, con la conquista alla Camera bassa di 320 seggi su un totale di 480, dei partiti che si sono caratterizzati per forti posizioni nazionaliste (tra cui il proposito di modificare la Costituzione giapponese che ha fortissime connotazioni “pacifiste” ponendo persino un limite estremamente ristretto alle risorse destinabili alla Difesa) giungono nel crescendo di tensioni per motivi territoriali con la Cina continentale e con l’Isola di Taiwan, le quali hanno favorito la vittoria nazionalista.
Dopo l’invio in sperduti e disabitati scogli, rivendicati dai tre diversi attori, di naviglio civile e militare, proprio in questi giorni di vigilia elettorale caccia giapponesi si sono levati in volo per respingere lo “sconfinamento” di un velivolo della Cina continentale su quello che considerano un loro spazio aereo.
Siamo di nuovo alle soglie di una strana triangolazione tra le “due Cine”, la Repubblica Popolare Cinese (la Cina continentale), la Repubblica di Cina (Taiwan) ed il Giappone per piccolissime isole in mezzo al mare attualmente disabitate? Almeno per ora, e nonostante il crescendo di tensioni e di provocazioni, si tratta solo di una disputa di sovranità, sia pure motivata da notevoli interessi economici per quella zona di mare sulla quale i tre attori reclamano interessi esclusivi, che si auspica possa venire risolta con un approccio diplomatico pacifico.
Di cosa si tratta esattamente? L’oggetto del contendere sono formalmente due “cime” che emergono da montagne sommerse, piccole e “marginali” isolette di circa 2 chilometri quadrati di superficie che hanno due differenti nomi, quello originario di Diaoyutai, che in lingua cinese significa “Piattaforma per la pesca”, e quello giapponese di Senkaku.
Questi isolotti furono infatti scoperti ed esplorati dai cinesi nel 1403 sotto la dinastia Ming (1368-1644) e successivamente sfruttati dai pescatori taiwanesi come appoggio alle attività di pesca; l’impero cinese se ne servì invece come postazioni lungo la rotta verso il Regno Ryukyu (l’attuale Okinawa) tanto che alla fine vennero incorporate all’interno del sistema difensivo costiero dell’Impero Ming.
Ufficialmente queste isole sono state sotto la giurisdizione cinese con continuità dal 1644 al 1912. Perché ufficialmente? In realtà si tratta di poco più che “scogli” in mezzo al mare, un appoggio e un riferimento, in particolare per la pesca, nel passato prive di reale importanza. Il Giappone le acquisì unilateralmente al proprio territorio, annettendole con un atto segreto del 14 gennaio 1895 nel corso della guerra cino-giapponese svoltasi dall’agosto 1894 all’aprile 1895.
A questo atto protocollato come “informazione riservata” e, contrariamente alle convenzioni internazionali, mai reso pubblico si richiama oggi, dopo che in quell’area sembrano essere state individuate interessanti risorse, il governo giapponese asserendo che «dal 1885 in avanti, sono state portate avanti ripetutamente delle indagini in loco che confermavano che le isole fossero disabitate e che non vi fossero segni di presenza dell’Impero Qing. Fu quindi presa la decisione a livello ministeriale, il 14 gennaio 1895, di annettere formalmente le isole».
Da parte cinese si ribatte che sempre dai vecchi documenti di archivio di fonte giapponese risulta che «il governo giapponese del tempo fosse al corrente della sovranità cinese sulle isole nel 1885» e che anzi, nell’ottobre del 1885, in seguito alla prima rilevazione giapponese in loco, sia il Ministro degli Esteri Inoue Kaoru che il Direttore delle Comunicazioni Pubbliche del Ministero degli Esteri, Asada Tokunori, descrivessero le isole come «vicine ai confini cinesi (…) prossime a Taiwan e appartenenti alla Cina» affermando che «in questo attuale contesto, se noi dovessimo pubblicamente porvi i nostri stemmi nazionali, acuiremmo necessariamente i sospetti (per un attacco in armi; n.d.r.) della Cina …».
Poi ci fu l’evidenza della guerra e i “sospetti” non costituirono più un impedimento diplomatico. Le isole, sia pure con atto unilaterale segreto, vennero annesse. La cosa si complica ancora, anche se all’epoca poteva sembrare un colpo di spugna, con la sconfitta della Cina che il 17 aprile 1895 fu costretta a firmare il Trattato di Shimonoseki, con il quale cedette «Taiwan e le sue isole» al Giappone.
Dal momento che le isole Diaoyutai erano parte di Taiwan, l’atto unilaterale segreto giapponese del 14 gennaio dello stesso anno rimase ignoto in quanto le basi giuridiche del possesso da parte del Giappone di quelle venivano poste e sancite da quel trattato, che però verrà reso nullo al termine della Seconda Guerra Mondiale, in applicazione della Dichiarazione del Cairo del 1943 nella quale si affermava che «tutti i territori sottratti alla Cina da parte del Giappone, quali la Manciuria, Formosa (Taiwan) e le Pescadores, devono ritornare alla Repubblica di Cina. Il Giappone sarà anche espulso da tutti quei territori che ha preso con la forza e l’avidità».
Semplice e definitivo. Niente affatto. Le Isole Diaoyutai avevano anche cambiato nome in Isole Senkaku, quisquiglia di cui nessuno si accorse da parte cinese sinché ci si riferiva a dei sperduti scogli disabitati, divenuta però oggi motivo di tensione con tre diversi attori, Cina continentale, Taiwan e Giappone, dal momento che l’area è stata classificata come interessante per le sue risorse sottomarine.
Fortunatamente, nonostante le tensioni e le provocazioni, non siamo più ai tempi delle guerre facili. Forse una proposta pragmatica, avanzata da Taiwan, potrebbe sbloccare la situazione. Si tratterebbe di mettere in secondo piano l’ingarbugliata questione sulla sovranità, resa ancora più complicata dal fatto che Taiwan non è formalmente indipendente dalla Cina continentale, che ne rivendica la giurisdizione, aprendo invece un tavolo di trattativa sullo sfruttamento delle risorse.
Il pragmatismo del Presidente della Repubblica di Cina (denominazione ufficiale di Taiwan, mentre quella della Cina continentale è Repubblica Popolare Cinese) Ma Ying-jeo ha reso possibile la normalizzazione delle relazioni tra “le due sponde dello Stretto”, cioè tra Taiwan e la Cina continentale. L’approccio a cui si ispira il Presidente Ma è che mentre la sovranità è un concetto assoluto ed indivisibile, le risorse possono essere condivise con vantaggio di tutti gli attori.
Questa in sintesi l’agenda proposta dal Presidente della Repubblica di Cina (Taiwan) Ma Ying-jeo: definizione di un codice comune di condotta per il Mare Cinese Orientale, quindi gestione e conservazione congiunta delle risorse viventi del Mare Cinese Orientale e conseguenti esplorazione e sfruttamento congiunti delle risorse non viventi del Mare Cinese Orientale; come corollario diretto ricerca scientifica marittima congiunta e protezione dell’ambiente marino.
Per attenuare le tensioni tra i tre protagonisti, il Presidente Ma propone esercitazioni militari congiunte per il mantenimento della sicurezza convenzionale e non convenzionale nel Mare Cinese Orientale. Nel lungo periodo, la Repubblica di Cina (Taiwan) auspica il superamento del triplo binario di dialogo bilaterale (tra Taiwan e il Giappone, tra Taiwan e la Cina continentale e tra il Giappone e la Cina continentale) con l’attivazione di un unico tavolo di negoziazione trilaterale.
Utopia o visione pragmatica? Giudicando con il metro della nostra cultura occidentale saremmo portati a privilegiare la prima ipotesi, ma i popoli orientali hanno una diversa visione delle cose. Il pragmatismo del Presidente Ma ha già consentito di superare lo storico steccato che si era creato tra Pechino e Taipei, tra le due sponde dello Stretto su cui si affacciano le entità una volta definite come Cina comunista e Cina nazionalista, con il semplice accantonamento delle laceranti questioni sul tappeto. Con questi precedenti si può essere moderatamente e con prudenza ottimisti.
Giorgio Prinzi
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