La mostruosità giuridica della legge Severino, che alla faccia del principio costituzionale della presunzione d'innocenza determina la sospensione dei titolari di cariche elettive a livello locale anche solo per sentenze di primo grado, è stata raffigurata, in tutta la sua gravità, dal semi-sconosciuto ma significativo caso dell'ex sindaco di Agrigento Marco Zambuto (Pd).
Condannato nel giugno dell'anno scorso a 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d'ufficio, Zambuto (per 7 anni alla guida della città siciliana) decise di dimettersi, anticipando la sospensione di 18 mesi che sarebbe comunque giunta dal prefetto in applicazione della legge Severino. "Un gesto d'amore" per la sua città, lo definì lo stesso Zambuto, che con la sua decisione riuscì per lo meno ad evitare l'onta di vedersi sospeso.
Tuttavia, cinque mesi dopo (a una distanza, dunque, neanche troppo eccessiva conoscendo le lungaggini della giustizia nostrana), giunse per Zambuto l'assoluzione in appello, condivisa persino dal procuratore generale di Palermo, che aveva definito una "forzatura" la condanna di primo grado. Il pur dovuto rispetto per la legge, così, lasciò spazio ad una sconfortante presa d'atto: "La legge Severino, così com'è non funziona e va cambiata - dichiarò l'ex sindaco - . Non deve più succedere che un amministratore venga sospeso se poi, come nel mio caso, viene assolto con la formula piena. Perché le mie dimissioni hanno comportato un taglio netto con il mio territorio. Il tutto per effetto di una legge ingiusta".
A pagare il prezzo dell'intera vicenda furono soprattutto i cittadini di Agrigento, e lo stesso potrebbe accadere oggi in Campania, con il noto caso De Luca, qualora il neo-eletto governatore - che ha a suo carico una condanna in primo grado per abuso d'ufficio - fosse sospeso ancora prima del suo insediamento, con l'impossibilità quindi di nominare la propria giunta (compreso il suo vice). Verrebbe ad emergere, ancora una volta, tutta l'irrazionalità di una legge che, disegnata per evitare la presentazione di candidature non ammissibili, stabilisce in realtà conseguenze di natura afflittiva che non riguardano l’esclusione dalle liste degli “impresentabili”, ma vanno ad intaccare il risultato di elezioni già avvenute, colpendo il voto degli elettori. Matteo Renzi ha scelto di temporeggiare per "evitare la paralisi assoluta", guadagnandosi le critiche di molti (da Renato Brunetta a Eugenio Scalfari) che già profilano il reato di omissione di atti di ufficio.
La svolta sembra essere giunta ieri, quando il governo ha annunciato che procederà alla sospensione del governatore campano non appena avrà ricevuto i pareri dei ministri competenti e dell'Avvocatura dello Stato per capire quale sia la procedura da seguire. I retroscena di alcuni noti cronisti-megafoni delle procure, per i quali Renzi avrebbe già pronto un decreto per cambiare la legge Severino permettendo l'insediamento della giunta De Luca, lasciano, nel solito allarmismo manettaro, il tempo che trovano.
Il doppiopesismo con cui il presidente del Consiglio ha deciso di gestire le tribolazioni di alcuni componenti del suo esecutivo ma non del suo partito (come Cancellieri, De Girolamo o Lupi, abbandonati in fretta e furia a se stessi nonostante il garantismo di facciata) e con il quale sta invece affrontando la grana De Luca (seguendo tutti i crismi interpretativi e giuridici che essa richiede) è sintomatico della più totale assenza nel presunto Rottamatore fiorentino di un vero approccio liberale alle questioni riguardanti il delicato equilibrio tra potere politico e giudiziario. Pur tenendo conto, comunque, che la cosa più illiberale, in tutto questo frastuono, resta proprio la legge Severino.
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