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16/11/24 ore

Il rischio grosso per Matteo


  • Silvio Pergameno

In un intervento su AR di ieri (“Matteo Renzi: giorni cruciali per cambiare”) si individuava un dato positivo nel percorso politico del premier nell’aver egli portato la battaglia per le riforme all’interno del Partito Democratico. Infatti, mezzo secolo di prima Repubblica e un ventennio di seconda (sbiadita fotocopia fuori tempo della prima) hanno consolidato la convinzione che i mutamenti nei nostri ordinamenti non passano tanto per le istituzioni designate nella carta costituzionale come luoghi delle decisioni politiche, ma si snodano attraverso i partiti, dai quali dipendono i parlamentari e gli stessi esponenti governativi (spiace dirlo, ma è così). 

 

Non è un caso che proprio nel linguaggio semiufficiale i gruppi parlamentari vengano spesso designati come “delegazioni” dei partiti. Nella vicenda politica così come sopra individuata, è insito peraltro, e lo si individua a prima vista, un rischio molto grave, anche se appare assai difficile capire quali rimedi sia possibile porre in atto per evitalo. È il rischio legato all’estrema lentezza dei piccoli passi in cui esso si sostanzia.

 

Guardiamo proprio alla vicenda in corso in questi giorni, alle innovazioni nella regolamentazione dei rapporti di lavoro. Si è capito, alla fine, che la grande battaglia per l’articolo 18 ha una portata più simbolica che concreta: già la legge Fornero ne aveva limitato l’applicabilità ai casi di licenziamento di carattere discriminatorio o motivati da ragioni di ordine disciplinare (cioè concernenti le concrete modalità nella resa delle prestazioni da parte del lavoratore ovvero il suo comportamento in azienda).

 

Considerato il fatto che un provvedimento di licenziamento sia riconosciuto di carattere discriminatorio ovviamente non può che comportare il reintegro del dipendente nel posto di lavoro, nella sostanza restavano in discussione i provvedimenti di ordine disciplinare. Ebbene Renzi ha ritenuto opportuno, al fine di evitare sorprese in sede di voto fiducia in Senato sul Jobs act, aggirare anche questo possibile ostacolo, inserendo la questione nella legge delega e cioè rinviando il tutto, in definitiva, ai futuri decreti delegati, che sono sotto tiro proprio per i tempi lunghi e le incertezze che ne caratterizzano l’emanazione.

 

Tutto questo mentre ci troviamo di fronte a una massima urgenza, determinata dal fatto che i documenti finanziari che il governo sta presentando al livello europeo, saranno esaminati e valutati a Bruxelles entro questo mese di ottobre e l’aria non tira a favore del nostro paese. Proprio la regolamentazione sul lavoro rappresenta una sorta di biglietto da visita per l’affidabilità dei governi quanto a capacità riformatrice e non è un caso che lo stesso presidente della Banca Centrale Europea abbia sempre insistito sulla necessità di adeguare i rapporti di lavoro alle esigenze dei tempi nuovi. E da una bocciatura possono avere conseguenze della massima gravità.

 

L’aria non tira a favore dell’Italia perché attualmente ai normali rigoristi nordici si stanno aggiungendo i paesi che già sono passati sotto le forche caudine dell’Unione Europea (Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda) e oggi “dopo la cura” si sono messi su una strada di positività; non sono quindi propense a fare sconti, mentre Francia e Italia sono sotto tiro.

 

Certo si aprirebbe un’altra battaglia da combattere, ma resta in ogni caso palese il fatto che la sensazione che si ricava dai lavori parlamentari e dagli incontri del premier con le parti sociali è che nei luoghi della massima responsabilità si continua a ragionare nei termini della massima irresponsabilità.

 

Di fronte ai rischi di dover procedere a tagli consistenti in aspetti centrali delle provvidenze dello stato sociale, si continua a ragionare con riferimenti e tempi propri di un passato ormai lontano, quello poi che ha prodotto una spinta irrefrenabile all’aumento costante del debito pubblico. È questa la palla al piede della situazione nazionale italiana, alla quale da oltre trent’anni non si riesce a porre un argine, per il terrore dei partiti di perdere consenso. Partiti nuovi non meno di quelli vecchi.

 

 


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