Ieri incontro con i sindacati, per vedere cosa ne pensano della rottamazione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori o meglio della portata simbolica che ne è rimasta, ma in effetti assai più importante delle disposizioni che contiene, o conteneva; poi in Senato il Jobs act, i principi della riforma dei rapporti di lavoro da affidare al governo con una legge delega, che poi è come dire “incontro con il suo partito”: c’hamm a fa?; oggi incontro con i vertici dei paesi europei. È una stretta, un passaggio obbligato: da come lo si supera comincerà a delinearsi il nostro prossimo futuro.
Anche se gli interlocutori, i sindacati e il partito, non hanno mai dato l’impressione di aver capito la posta in gioco e hanno continuato a ragionare secondo le logiche della solita routine nella quale ci trasciniamo da trent’anni: discorso bloccato sulla tutela dei diritti acquisiti,sullo stato sociale che non si tocca…quando acquisiti i diritti nel campo economico lo sono sulla carta. Ma se i soldi non ci sono, se siamo carichi di debiti, cosa si fa?
Se restiamo prigionieri della logica del salario come variabile indipendente, fondata sul presupposto di una crescita economica comunque assicurata, che è il presupposto di certi orientamenti, non andiamo da nessuna parte. Intendiamoci bene, non che le misure proposte dal governo appaiano veramente persuasive. Perplessità rimangono proprio riguardo ai due limiti fondamentali che gli Stati dell’euro debbono rispettare in base al trattato di Maastricht: un deficit del bilancio dello stato inferiore al 3% del prodotto interno lordo e un debito pubblico inferiore al 60% del medesimo prodotto interno lordo o comunque tendente al rientro.
ll ministro Padoan, in un’intervista,rilasciata giorni fa a Repubblica, ha precisato con chiarezza che la linea del governo è di rispettare il primo di essi, ma quanto al secondo di ritenere che solo assicurando la crescita economica del paese si possono trovare i mezzi per finanziare progressivamente il ripagamento dei nostri debiti: più investimenti, più consumi, più esportazioni come obbiettivo primario, in altri termini. Affidarsi a una politica economica e fiscale restrittiva, contare sulle imposte che poi gravano proprio sulla produzione, cioè sulla fonte dei redditi, sarebbe sbagliato.
E il governo ha varato delle misure “espansive”, come prima gli 80 euro e ora il TFR in busta paga. Ma intanto la prima misura non ha funzionato nel senso richiesto e la seconda potrebbe dare analoghi risultati, anche se passerà; intanto il debito pubblico continua a crescere; intanto il pareggio di bilancio viene rinviato al 2017; intanto la riduzione della spesa pubblica non va avanti nella misura necessaria ; intanto si continua a far conto sul gettito tributario (in particolare l’IVA) che testimonia di una politica restrittiva e non cento espansiva… Continuiamo cioè a restare invischiati nel meccanismo infernale nel quale ci dibattiamo da mezzo secolo.
Renzi, sempre molto bravo nel navigare nell’oceano tempestoso della politica nazionale, segue un logica imperniata sul principio che la globalizzazione, la necessità di produrre, consumare, risparmiare, investire, assicurare benessere e sicurezza in un mondo economico caratterizzato da un mercato mondiale aperto richiede un ripensamento e un profondo aggiornamento dello stato sociale e si sforza di operare seguendo questa traiettoria. I risultati sono sinora parecchio modesti; su questo punto non pare possa esserci discussione. Occorre però osservare che se sinora un cambiamento non c’è stato - né, quanto meno, un avvio di cambiamento – il motivo del rischiosissimo ritardo che ci affligge va ricercato nell’invecchiamento della classe politica italiana, la quale, ogni giorno che passa, si rivela sempre più inadeguata ad affrontare i compiti che si trova di fronte.
Berlusconi nel corso del suo ventennio si è mosso in modo inadeguato e non di rado maldestro, e soprattutto non è riuscito a modellare una nuova destra, mentre all’interno di Forza Italia e delle piccole formazioni derivate da essa ogni prospettiva appare naufragare in una frantumazione sempre più ossessiva di conflitti interni all’insegna della sopravvivenza.
A sinistra, nel centro sinistra, il discorso appare diverso. Renzi si è mosso nella direzione di provocare un conflitto all’interno del Partito democratico e dei sindacati di riferimento, uno scontro sia pure tra conati di conservazione e proposte di cambiamento. E su questo terreno qualche cosa si comincia a vedere, a cominciare proprio dal fatto che il problema è stato posto e che su di essi il partito controverte.
E poi il clima politico è cambiato: Berlusconi non è più al centro della vita politica nazionale, le esigenze, di cui non è riuscito a farsi portatore, hanno oggi investito il campo della sinistra provocando un salutare guazzabuglio; l’ondata protestataria appare sulla difensiva e non poteva essere altrimenti; si comincia ad avvicinarsi al problema della magistratura, al cui interno la spinta “estremista” appare quanto meno raffreddata, mentre all’esterno si avverte un avvio di consapevolezza sui temi profondi richiesti da una riforma adeguata dell’ordinamento giudiziario: fino a poco tempo fa se ne parlava solo su QR e AR; i problemi dello stato sociale cominciano a investire essi pure la sinistra…
Perciò, mai come in questo momento proprio a sinistra una presenza di pensiero liberale, di sinistra liberale, si rivela quanto mai indispensabile, proprio per avviare un’ipotesi di cambiamento. In due paesi pilota in Europa, la Gran Bretagna e la Germania le famose riforme (avviate nella prima delle due nazioni da un’esponente duramente conservatrice) hanno raggiunto una portata del massimo rilievo soltanto quando la sinistra ne è stata investita: Tony Blair e Gerhard Schröder. Non hanno cambiato definitivamente il mondo; hanno fatto qualcosa , però qualcosa di significativo e noi possiamo fare tesoro della loro esperienza. Non vuole essere un giudizio su Renzi, né positivo né negativo; piuttosto una riflessione su noi stessi.
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