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17/11/24 ore

Riforma del Terzo settore, a metà tra il dire e il fare


  • Antonio Marulo

È passata un po’ in sordina, sovrastata dalle beghe referendarie ed elettorali, la notizia sull’approvazione della riforma del Terzo settore. Attesa da anni, era diventata priorità nazionale imprescindibile dopo il caso di mafia capitale, che aveva scoperchiato, a beneficio del grande pubblico, il vaso di pandora del cosiddetto non profit, facendo emergere alcune delle possibili distorsioni del variegato mondo della “solidarietà”. Su queste pagine ne scrivemmo tempo fa a proposito di un interessante libro di Giovanni Moro, sottolineando i punti critici che si celano in quel magma indistinto cresciuto a dismisura negli ultimi decenni con un giro d’affari di tutto rispetto.

 

C’era la necessità stringente di fare un po’ di chiarezza, partendo dalla natura giuridica dei soggetti in campo, attraverso anche il riordino e la semplificazione normativa. In tal senso, fra gli addetti ai lavori si respira soddisfazione per quanto previsto dalla delega in merito alla “carta d’identità per il terzo settore”.

 

Allo stesso modo è stata vista con entusiasmo la normativa sul volontariato e il “servizio civile universale”, che dovrebbe agevolare il reclutamento della manovalanza a prezzo di costo, grazie anche ai fondi pubblici che verranno stanziati per i rimborsi spese.

 

Altra questione spinosa emersa negli anni è quella relativa alla disciplina dell' “impresa sociale”, che con la sua ridefinizione dovrebbe rompere il dominio delle cooperative, articolando in forme diverse i soggetti che possono perseguire “finalità sociali all’interno di settori di attività di interesse generale”.

 

Non pochi dubbi e malumori sta invece destando l’istituzione dell’ “Iri sociale”, così definita con una certa dose di improntitudine dal suo promotore, il finanziere “renziano” Vicenzo Manes. Si tratta di una fondazione che parte, appunto, con uno stanziamento di denaro pubblico e mira alla "realizzazione e lo sviluppo di interventi innovativi caratterizzati dalla produzione di beni e servizi senza scopo di lucro" e "idonei a conseguire un elevato impatto sociale e occupazionale".

 

Quanto alla parte più corposa e fondamentale della riforma, nulla è chiaro e definito, al di là delle buone intenzioni sotto forma di principi generali delineati dalla delega in tema di regime fiscale, trasparenza dei bilanci e di tutto quanto riguarda quell’insieme di regole dalle quali i malintenzionati trovano sempre redditizi spunti per delinquere. In proposito, l’attuazione della delega, da compiere entro l’anno, sarà determinante per una valutazione complessiva dell’intero impianto riformatore. Da questo aspetto si comprenderà la reale volontà del legislatore, e di chi ne ha guidato la mano, di ridurre le distorsioni di un settore che ha finora vestito, non sempre degnamente, i panni nobili del “non profit”. Per ora, siamo ancora a metà tra l’astrattezza del dire e la concretezza del fare.

 

 


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