"A Palermo con l’acqua si mangia". La nota battuta dà la misura di come venga in Sicilia vissuto e sfruttato un disservizio – di per sé risolvibile - che diventa disagio sociale da salvaguardare e perpetuare nel tempo in quanto occasione di business di dubbia liceità. L’annosa questione è paradigmatica di un certo andazzo italico, sintetizzabile nell’sms intercettato dell’ormai famoso Buzzi nel quale si manifesta in principio l’auspicio "…che il 2013 sia un anno pieno di monnezza, profughi, immigrati, sfollati, minori, piovoso così cresce l'erba da tagliare e magari con qualche bufera di neve…", prima di chiudere con un "evviva la cooperazione sociale!" e – aggiungiamo - il suo enorme giro d’affari, sotto l’egida buona, giusta, equa e solidale del non profit.
Ed è da queste ultime due paroline magiche che bisognerebbe partire per comprendere il problema e nel caso agire, al di là dei demagogici annunci renziani sul chi ruba deve pagare e restituire l’intero maltolto. Dall’inchiesta Mafia Capitale è emerso infatti quanto in parte già si temeva che nuotasse nel mare magnum del cosiddetto Terzo settore. Giovanni Moro, nel libro "Contro il non profit" edito da Laterza, parla di "lato oscuro" nel quale il crimine a vario titolo sguazza, coperto dall’ "effetto alone" dei buoni sentimenti e attratto dai grandi numeri del cosiddetto Terzo settore: 1 milione di persone impiegate e circa 85 miliardi di euro mossi ogni anno, pari al 3,3% del Pil.
Il vizio come spesso capita è d’origine e risiede nel “peccato originale” di definire “un fenomeno soprattutto per quello che non è anziché per quello che è…”. Si mettono così “insieme quasi senza distinzione soggetti e soprattutto attività che insieme non dovrebbero stare, attribuendo a esse una identità positiva e un valore molto più economico che sociale”.
Su questa falsa riga è illuminante la definizione fornitaci dall’Istat, secondo cui sono organizzazioni non profit “tutte quelle realtà istituzionali, produttive di beni e servizi, anche prive di personalità giuridica, che non distribuiscono profitti ai soggetti costituenti”. Da qui il magma indistinto per cui si può avere diritto di far parte del “non profit a prescindere”, con tutti i vantaggi (per certi aspetti soprattutto fiscali), anche se sei il Circolo di Tennis Parioli, purché si rispettino – sottolinea l’autore - “i requisiti che rientrano perfettamente nel tradizionale, ossessivo, formalismo giuridico che soffoca il nostro paese, e che poco o nulla hanno a che fare con ciò che viene realizzato”.
Per questo non è peregrino affermare - come fa Giovanni Moro – che “il terzo settore non esiste”: che si tratta di un’invenzione, perché unisce “una realtà spuria” che nel tempo è diventata come Golem della Leggenda yiddish: un mostro buono, creato per proteggere la comunità, cresciuto poi a dismisura con una forza distruttiva fuori controllo o meglio quasi impossibile da controllare.
Se si parte da questa che può apparire una provocazione, cioè che “il non profit non esiste”, forse si può anche individuare dove e come intervenire per correggere la rotta. La riforma del Terzo settore - della quale si parla da mesi e ben prima che scoppiasse la grana capitolina - non sembra andare alla radice del problema, operando quell’ “esercizio del distinguere” su ciò che sia o meno meritevole di essere considerato “non profit”.
Una volta ridotta la massa indistinguibile che agevola e favorisce la degenerazione del sistema, sarebbe meno difficile mettere in pratica l’importante e fondamentale concetto dell’ accountability, che “non contiene solo l’idea che l’operatore o agente debba rendere conto delle azioni compiute al suo principale in suo nome o a suo beneficio, ma anche che il principale abbia il potere di premiare o punire...”.
Nel caso specifico, bisogna fare i conti con le difficoltà ulteriori insite nell’accountability di un mondo dove – come sottolinea Moro - anche i beneficiari “non sono facilmente identificabili e spesso coincidono in modo astratto con l’intera società, o addirittura ancora non esistono, come le famose generazioni future delle politiche ambientali”.
Se a questo poi si aggiunge la peculiarità tutta italiana che il non profit operante nel welfare è “finanziato in gran parte dallo Stato anziché dalle comunità”, ecco che la questione nel Belpaese si complica maggiormente. Perché, si sa, quando a pagare è Pantalone… Mafia Capitale insegna.
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