Nel Greenwich Village del ’61, poco prima dell’inizio dell’epopea Dylaniana, si aggirava, chitarra a tracolla legata con lo spago, un folk singer di sicuro talento, un certo Llewyn Davis. Il quale non ebbe pero’ altrettanto successo di Bob ed é anche di questo che tratta il film dei Coen, che racconta la settimana cruciale della vita di quello che oggi chiameremmo un perdente,per quanto di gran qualità, come pretesto per raccontare un'epoca.
Come spiega Ethan, il più loquace dei Coen: “ Si sa tutto di Dylan, la sua storia e la sua musica, ma molto meno si sa di quello che avveniva nei primi anni Sessanta. Quello scenario folk che lui ha irrimediabilmente cambiato per sempre". Nel cast: Oscar Isaac, Justin Timberlake, Carey Mulligan e John Goodman.
Dice di lui Timberlake ”io sono cresciuto nel Tennessee, ascoltando la musica country e il blues, le prime lezioni di chitarra me le ha date mio nonno.Ho cominciato questo mestiere che ero molto giovane. Ho incontrato tante persone di talento che non sono state ascoltate. Mi sono trovato nel posto sbagliato con la gente giusta, altre volte nel posto giusto con la gente sbagliata.
"Perché Llewyn non trova il successo? Perché ha pulsioni autodistruttive? Perché ha un rapporto difficile con l'idea del successo? Perché vuole affermare la propria autenticità? A volte non vince il primo che ha un'idea. Arriva il secondo a fare la stessa cosa e ne prende i benefici. Forse Llewyn era il primo".
Una storia che dovrebbe perciò esser triste ma che i Coen riescono a rendere con la consueta intelligenza, misuratamente umoristica, con le battute, le gag in cui suo malgrado, Llewyn si trova invischiato. Caloroso e non solo perché si é riso, arriva dunque puntuale l’applauso che accoglie i titoli di coda.
Bruni Tedeschi dice del suo film: “Quando scrivo con le mie collaboratrici, Noémie Lvovsky e Agnès de Sacy, non decidiamo mai razionalmente; si procede per intuizioni, per piacere. C’era all’inizio la voglia di pensare a Cecov e al suo giardino dei ciliegi, per raccontare la storia di una famiglia, di un fratello malato, di un castello, un parco, dei ricordi di un padre scomparso e questa ispirazione mi ha accompagnato durante la varie fasi di costruzione del film.
Che é poi la storia, liberamente adattata per lo schermo, della sua famiglia che ne contiene un’altra, quella di un’amore difficile. Ma quale non lo è? Accostamento che la sceneggiatura, più che la regia, manca di realizzare compiutamente rispetto a quelle che sembrano essere le intenzioni del progetto.
Un bel minuto per un Omar Sharif nella parte di se stesso,quando appare tra il pubblico di un’asta Sotheby’s, dove un gioiello di famiglia, un Bruegel giovane, viene sacrificato dalla famiglia per risollevare le proprie sorti ed evitare il carcere alla madre per dei vecchi debiti insoluti.
Un’imprevista presenza che sembra suggerire, alla non più giovane donna, la possibilità di un nuovo amore, datale anche solo come effimera possibilità. Anche quest’opera, come la prima, si presenta ben confezionata e non manca di temi, emozioni, buona fotografia e appropriate scenografie ma poi chissà perché, da spettatori , non si riesca a eludere la doverosa questione su che cosa rimane della visione a cui si é assistito?
La risposta, in un festival come questo, non può che arrivare da un’altra visione. Che é la riproposizione odierna, sapientemente rimaneggiata, di una produzione di Polanski del 1972 per la regia di Frank Simon, a cui vengono aggiunte le nuove riprese della stessa location di allora, Montecarlo e il suo circuito, eseguite dallo stesso Polanskiche poi rimonta tutto, a quarant`anni dalla prima versione. Prodotta questa volta da Mark Steward, il figlio quarantenne di Jackie.
E siamo alla cronaca dei tre giorni, il week end del titolo, che comprendono le prove e poi la sintesi , del Gran Premio di Monaco del 1971, anno in cui il grande pilota inglese si laureò per la seconda volta (poi la terza e ultima,nel 1973) campione del mondo.
Ma cosa rende grande questo piccolo capolavoro? Come puo’ un soggetto sportivo commuovere, eccitare, sorprendere, appassionare, mostrare guerre e paci e grandi verita’, raccontare l`umanita’ di un mondo che e’ cosi’ cambiato e, nello stesso tempo cosi’ rimasto, nella sostanza, quello di sempre?
Forse semplicemente perché è il film su un’amicizia iniziata più di quarant’anni fa e ancora viva, tra due grandi anime, vicine per sensibilità e carattere, che si reincontrano già anziani ma ancora pieni di vita, entusiasmo, amore e soddisfazione per una vita vissuta pericolosamente, ognuno a suo modo, e ancora esposta al nuovo e all’inconsueto per la gioia, il coraggio e la tensione giovanile che solo due cuori irrimediabilmente adolescenti sono in grado di provare.
Dopo il racconto della corsa, uno stacco ce li mostra seduti accanto sulle stesse due poltrone del medesimo albergo in cui Steward era alloggiato con la moglie Helen, per sorvegliare dalle finestre l’andamento di quei giorni di gara, in attesa delle quotidiane discese in pista del campione.
“Non ho mai capito perché hai voluto fare questo film”, sembra chiedersi il pilota sinceramente perplesso, rivolgendosi al regista. Ma come a rispondersi, comincia a rievocare. A questo punto, il racconto di Jackie, diventa il film.
E anche se parla solo di sicurezza di guida, di tecniche di frenata e di come sfiorare i marciapiedi che possono far scoppiare i pneumatici mettendo a rischio non solo una vittoria ma ben altro, è l’uomo e non il pilota a raccontare e le immagini a mostrare, la vita e la morte, gli amori e le speranze, i sentimenti e le emozioni, in due parole, la vita vera di un mondo che non è ne il primo ne il più tipico nel quale si va, istintivamente, a cercarla.
Durante lo scorrere della sua breve carriera sono morti 5 dei suoi amici-colleghi più vicini. Da Lorenzo Bandini, scomparso in una nuvola di fuoco all’uscita di una curva proprio li’ a Montecarlo, a Piers Courage, da Francois Cevert a Jochen Rindt e Jo Schlesser. Ma sono ben 57, a oggi , le vittime di una passione che non prova solo chi è al volante.
E il racconto delle lotte che il campione si impegnò per primo, a portare avanti per rendere questo sport meno tragico e la soddisfazione meritata per il calo drastico di quelle cifre. E di come oggi si corra ancora e in quale modo pur sugli stessi tracciati. Di come siano diversi e più grandi e moderni gli yacht ancorati nel porto, anch’esso ampliato per essere in grado di accogliere anche le grandi navi da crociera. Ma soprattutto di come e quali erano i rapporti tra i concorrenti e la vita che ruotava intorno alle gare.
Nella sala intitolata a Louis Bunuel, quattro gatti, niente applausi e molto sentimento, emozione, riflessione...Cultura. W Il Cinema!
Vincenzo Basile
Inside Llewyn Davis dei fratelli Joel e Ethan Coen, Un castello in Italia di Valeria Bruni Tedeschi e Il week end di un campione di Roman Polanski
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