di Camillo Maffia e Gianni Carbotti
Si chiama “Zingari” il nuovo workshop di Oliviero Toscani con Paolo Crepet, Settimio Benedusi e Tommaso Basilio che si tiene a Pavia il 15 e 16 luglio, quarto appuntamento di “Neverending Photo Masterclass”: una full immersion di due giorni nel cuore della comunità sinti. Un modo, per i fotografi, di confrontarsi con tutta la paura e il fascino del diverso che permea la civiltà pur essendone apparentemente ai margini.
Ma se non sarebbe forse sbagliato azzardare che tra i tratti caratteristici dell'arte di Oliviero Toscani c'è proprio quello di squarciare un velo per penetrare a fondo e arrivare a comprendere il tempo in cui viviamo, qui il paradosso è dato dall'atemporalità del luogo: il campo dei sinti, emblema dello spazio in cui questo popolo dal Quattrocento si sforza di mantenere in vita tradizioni, parole, costumi e stili di vita.
E basterebbe questo per cominciare a riflettere sui tempi in cui viviamo, il fatto che per capirli a fondo bisogna andare in un luogo che a suo modo è senza tempo. Per saperne di più ne abbiamo parlato con lo stesso Oliviero Toscani.
Come nasce questo workshop e come mai ha scelto questo soggetto?
Il workshop nasce nell'ambito di una serie: il primo era stato a Rimini, col titolo “Immaginare”, poi uno a Volterra, “Vento e follia”; poi uno a Torino, “Barriere”. Era un luogo di Torino dove s'incontrano proprio due culture: quella torinese e quella degli immigrati. E poi questo qui in cui si va in un posto problematico per gli italiani. Ci sono grandi discussioni sui campi sinti, i campi rom, i campi profughi: non vogliamo campi qui in Italia, solamente quelli di calcio. Quelli van bene, per quelli spendiamo delle fortune...
Come si svolgerà il workshop?
Come tutti: vogliamo fare i testimoni del nostro tempo e delle cose che succedono nel nostro tempo. Con chi si è iscritto al workshop andremo dentro, guarderemo, parleremo con la gente e capiremo in che modo si può fotografare un posto così attraverso le persone, l'architettura, i luoghi in cui vivono, gli oggetti di cui si circondano; in che modo coltivano le loro rose, in che modo tengono i loro caravan... Sono sinti emiliani, è una comunità che vive lì da tanti anni.
Come i rom anche i sinti sono vittima di pregiudizi, nonostante spesso siano più italiani di noi...
Anche questa infatti è una comunità di italiani, che vanno a lavorare. Ma appena dicono che sono di origine sinta, l'italiano s'inalbera subito.
Secondo lei perché fanno tanta paura?
Fanno tanta paura perché dentro di noi tutti vorremmo essere un po' zingari: quando poi ne vedi uno vai in crisi. È un po' come capita a quei padri che non hanno fiducia nelle figlie perché sono un po' puttanieri, allora pensano che la figlia potrebbe essere come loro e la tengono chiusa in casa. Noi italiani siamo un po' così...
In questi stereotipi sofferti dalla comunità rom e sinti quanto pesano la politica e l'informazione?
Moltissimo. Il problema è politico: tutto ciò che è diverso fa paura, ce lo ha sempre insegnato la cultura generale umana. Il diverso bisogna combatterlo. Fino a un po' di tempo fa la gente girava armata: del resto gira armata ancora adesso... Ma quando girava con la spada e incontrava lo straniero, si uccidevano.
A questo proposito lei parla di “conformismi eterofobi”: può spiegarci meglio che cosa intende?
La paura del diverso: appena usciamo dal poco che sappiamo di noi e ci ritroviamo nel tanto che c'è ancora da sapere e capire, la cosa fa paura e questo è ignoranza. Ignorare, non sapere e non capire crea paura.
Da un lato c'è una immagine storica dello “zingaro” alla base dei pregiudizi, dall'altro, com'è accaduto ad esempio a Roma con la operazione “Mondo di mezzo”, sono emersi pure parecchi interessi dietro questa segregazione di cui sono vittime.
Certo, poi ci sono i furbi che ci speculano su: questo è logico. Karl Marx ha pensato, scrivendo “Il Capitale”, che col comunismo tutti saremmo stati gente onesta. E invece no! Persino quelli che han fatto la Rivoluzione di Ottobre hanno cominciato a imbrogliare. Il problema è tutto lì: la cultura che deve fermare qualsiasi forma di speculazione etico-morale e quindi anche economica.
Proprio nell'ambito del suddetto scandalo Marco Pannella sporse una denuncia penale alla Procura di Roma, in cui indicava la corruzione come motore delle violazioni dei diritti umani: un suo commento su questo.
Io credo che nessun Paese occidentale sia più corruttibile, corruttore e corrotto dell'Italia. È proprio un nostro sistema di sopravvivenza. In Italia inoltre la cosa importante è l'appartenenza: la prima cosa che ti chiedono è da che parte stai, qual è il tuo partito. Ma l'appartenenza non si mette in rapporto alla qualità e alla competenza. Conta solo se sei comunista, fascista, radicale: ma i radicali, poveretti, non hanno mai avuto né io ho mai avuto in 75 anni, in cui ho sempre votato radicale, la soddisfazione di vedere il mio Paese gestito un giorno sulla base di quello che ho votato. Dovrei avere almeno una settimana-premio per la costanza, non so... Il nostro è un Paese che guarda il tutto dalle curve nord o sud, c'è poco da fare. E questo vuol dire appartenere alla tifoseria e in fondo alla violenza, alla sopraffazione. Quando io ho annunciato che avrei fatto il workshop nel campo di Pavia, sui social è arrivata una serie di insulti e di promesse di violenza. Qualcuno diceva: “Andiamo col lanciafiamme, bruciamo tutti”... Se tu fai il reporter vuoi andare a vedere com'è la situazione, analizzare, capire. E invece bisogna appartenere, essere di una tribù. Guardando su Facebook qualcuno mi ha detto: “Ma vai lo stesso?”. Come a dire: “Ma sei pazzo?”.