di Giorgio Prinzi
L’Unione Europea viene notoriamente considerata debole e carente in politica estera, spesso persino ritenuta prima di una strategia ad ampio spettro e di una visione geopolitica globale. Ma non sempre è così. Questo diffuso luogo comune è stato smentito da una iniziativa diplomatica di lungo periodo, certosinamente costruita pezzo dopo pezzo che, di fatto, è stata il formale riconoscimento della Repubblica di Cina (Taiwan), da parte della Repubblica Popolare Cinese, che la riteneva una provincia ribelle da ricondurre alla Madrepatria persino con la forza.
Questo riconoscimento di sovranità di fatto è avvenuto non solo senza urtare la suscettibilità di Pechino, ma addirittura creando le premesse per uno storico incontro, avvenuto sabato 7 novembre 2015 a Singapore, tra i due Presidenti, quello dell’Isola ribelle Ma Ying-jeou e quello della Cina Continentale Xi Jinping, che se pur non essendo un formale riconoscimento da parte di Pechino, è stato senza dubbio un atto distensivo e di apertura al dialogo in reale prospettiva paritaria ed addirittura con l’enfasi che è avvenuto ai massimi livelli reciproci.
In questo clima di “storiche” aperture Taiwan aveva potuto in quei giorni prendere iniziative importanti sotto il profilo giurisdizionale di Stato di fatto autonomo, quali ad esempio un accordo per l'applicazione della legge sulla pesca tra Taiwan e le Filippine, concluso il 5 novembre 2015, importante proprio sotto questo profilo di Stato autonomo e sovrano in quanto la materia regolamentata, volta a tutelare i diritti e gli interessi dei pescatori di Taiwan che operano legalmente, riguarda le controversie in materia di pesca nelle zone economiche esclusive sovrapposte dei due Paesi, quindi estensione di sovranità a distanza dalle coste e dalle acque territoriali propriamente definite.
Le zone economiche esclusive sono infatti una proiezione di giurisdizione e di sovranità oltre a quella stessa territoriale che, secondo il Diritto internazionale, può estendersi fino a 200 miglia dalle linee di base dalle quali è misurata l’ampiezza del mare territoriale. Istituita dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, la zona economica esclusiva diviene effettiva a seguito della sua formale proclamazione da parte dello Stato costiero.
Bene, o forse male. Perché nonostante la quasi totalità degli osservatori terzi abbia salutato l’incontro tra i Presidenti della due Cine come un fatto estremamente positivo, parte dell’opinione pubblica di Taiwan lo contestava in forme insolitamente forti per la compostezza tipica di quella società. Nella notte dello storico incontro tra i due Presidenti a Taipei, capitale di Taiwan, si è svolta in una manifestazione, con momenti di alta tensione, per contestare il vertice, che è stato il primo reale incontro di dialogo ai massimi livelli dalla fine della guerra civile nel 1949.
Un centinaio di dimostranti, secondo fonti di stampa, innalzando cartelli con la scritta “Indipendenza per Taiwan” hanno tentato di forzare il Parlamento, senza riuscire ad entrare in quanto respinti dalla polizia. Decine gli arresti con la polizia che ha letteralmente portato via di peso i manifestanti, sgombrando la piazza.
Perché questa violenta ed apparentemente ingiustificata reazione di fronte ad un evento considerato storico in senso positivo? Come dicevamo Pechino considera Taiwan una sua provincia ribelle, sfuggita alla conquista di tutto il territorio cinese con la “lunga marcia” guidata da Mao Zedong in quanto isola che era stato impossibile all’epoca occupare per la mancanza di adeguati mezzi. Una posizione ribadita da Pechino nel 2005 con una legge che impone l’intervento armato qualora l’isola prenda iniziative concrete verso l’indipendenza, che fortemente preoccupa proprio quella parte di opinione pubblica di Taiwan favorevole all’indipendenza, e per questo timorosa che il vertice di Singapore significasse una resa alla Cina Continentale da parte del Presidente Ma Ying-jeou, prossimo al termine del suo secondo, e non più reiterabile, mandato presidenziale.
Ed il fatto nuovo è emerso proprio dalle elezioni presidenziali che si sono svolte lo scorso 16 gennaio che hanno portato, con il 56% dei suffragi, al vertice dell’Isola la cinquantanovenne Tsai Ing-wen, prima donna a ricoprire tale carica, eletta con larghissimo margine sul suo concorrente diretto il candidato del Kuomintang, il partito del presidente uscente, Eric Chu Li lun che ha totalizzato solo il 31% dei suffragi.
Questa elezione se da un lato viene positivamente valutata in quanto testimonia che Taiwan è una democrazia bipolare compiuta, che gioca sull’alternanza tra Kuomintang e Partito Democratico Progressista, quello della neo Presidente, oltre che una società evoluta sotto tutti gli aspetti compreso quello della parità di genere, per altri versi desta in molti osservatori serie preoccupazioni in quanto la campagna elettorale della neo eletta Presidente, oltre che sui temi economici, è stata incentrata proprio sulla transizione dall’indipendenza di fatto alla totale proclamazione di sovranità giuridica a tutti gli effetti, questione che obbligherebbe, per la citata legge del 2005, il Governo di Pechino ad intervenire militarmente.
Timori reali e fondati?
Sotto il profilo strettamente formale senza dubbio lo sono, anche se sotto quello del pericolo reale appaiono a chi come noi ha frequentazione di diversi decenni con la cultura cinese meno incombenti di quanto la maggioranza dei commentatori ha ritenuto e ritiene.
Vi è infatti un interesse reciproco a non turbare il clima sapientemente costruito nel corso dei due mandati del Presidente Ma, che ha portato alla quasi normalizzazione dei rapporti tra le due sponde dello Stretto, quello che divide l’Isola dalla Madrepatria, sanciti anche da iniziative ed accordi internazionali, quali il pacchetto che ha portato a quello che di fatto è un riconoscimento di sovranità da parte dell’Unione Europea e che non ha suscitato, probabilmente grazie ad una sapiente concertazione preparatoria a nessuna reazione da parte della Repubblica Popolare Cinese.
Taiwan, poi, è oggi il maggiore investitore “estero” nella Cina Continentale, per cui incrinare i buoni rapporti sino ad oggi costruiti sarebbe disastro per entrambe le parti, nello specifico per la neo Presidente Tsai che ha appunto giocato per metà la sua campagna elettorale sugli aspetti economici, facendo leva sulla stagnazione dovuta la calo delle esportazioni che sarebbero mortalmente compromesse da un deterioramento dei rapporti con la Cina Continentale. Pechino dal canto suo si trova a fronteggiare un forte rallentamento della sua crescita economica ed una crisi finanziaria che si ripercuote sulle quotazioni in borsa. Inoltre, la Repubblica Popolare Cinese deve fare i conti con una difficile transizione verso un regime di libertà, perora solo di selvaggio liberismo economico, che tuttavia ha innescato una domanda di libertà effettiva e di democrazia, oltre che di migliori condizioni di vita e di riconoscimento della dignità individuale come cittadini e come lavoratori. Quindi una situazione interna fluida, potenzialmente deflagrante.
Le pregresse esperienze di Macao e di Hong Kong hanno poi dimostrato quanto difficili siano operazioni di assimilazione di comunità evolute con sistema politico, economico e culturale diverso da quello della Repubblica Popolare Cinese, tali da esporre al rischio di rivolte e di destabilizzazione interna di un territorio, quale quello della Repubblica Popolare Cinese, vastissimo e caratterizzato da differenziazioni notevoli, causa di tensioni che verrebbero solo amplificate nel forzato tentativo di assimilare “diversamente cinesi”, come appunto i casi di Macao e di Hong Kong hanno dimostrato.
Vi sono infine ragioni geopolitiche ed altre ascrivibili al cosiddetto conflitto tra civilizzazioni. In questi mesi la Repubblica Popolare Cinese ha cominciato a porsi come potenza garante sullo scacchiere mondiale a fianco ed alla pari di Stati Uniti d’America e Federazione Russa, ad esempio dispiegando contro Isis una forza militare di proiezione, con una squadra navale di tutto rispetto di cui fanno parte incrociatori pesanti e persino una portaerei, oltre una forza aerea, secondo quanto riferisce l’agenzia israeliana di intelligence Debka citata in Italia da Difesa on line, rafforzata da caccia di quarta generazione J-15.
Pechino inoltre è fortemente disturbata in questo suo costruirsi il ruolo di terza grande potenza globale dalle estemporanei iniziative del presidente della Corea del Nord Kim Jŏng-ŭn, “duce” supremo politico e militare del suo sfortunato Paese, che hanno suscitato allarme nella regione con l’immediato dispiegamento di contromisure militari, comprese quelle di ritorsione contro un tentativo di primo colpo nucleare che provocherebbero una commisurata risposta della stessa natura.
Una crisi militare, anche solo un semplice braccio di ferro in armi con Taiwan, è la cosa che in questo delicato frangente Pechino meno si augura, con un reciproco interesse tra Taiwan e Cina Continentale a non ingenerare tensioni pericolose, comunque contrarie al pragmatismo degli interessi reali consolidati, tra le due sponde dello Stretto.
Se Repubblica di Cina e Repubblica Popolare Cinese, eredi entrambi di una storia millenaria, saranno in grado di trovare un reciproco pacifico e proficuo compromesso si porranno come esempio positivo di fronte l’opinione pubblica mondiale. In questo momento conflittuale e di profonda crisi ce ne sarebbe un grandissimo bisogno.