Con un 13% di partecipazione, gli Psicologi Italiani respingono il referendum proposto da parte dell'Ordine Nazionale degli psicologi. Dagli articoli che seguono di Rolando Ciofi del Movimento Psicologi Indipendenti MOPI e di Anna Barracco del Coordinamento Professionisti della Relazione d'aiuto - CIPRA emerge un contesto alla Dan Brown manovre infestato da azioni oscurantiste e corporative e prese di posizione culturali, scientifiche e politiche, di stampo para-psicologico, anacronistiche e senza alcun riscontro nel mondo occidentale.
Raffaele Cascone
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"Grazie alle slide pubblicate da Mauro Grimoldi sulla sua pagina facebook, che qui riporto, siamo in grado oggi di pubblicare i dati, ancorchè ufficiosi, circa l'esito del referendum indetto dall'Ordine Nazionale degli psicologi su tre punti:
Art 1 (applicabilità del codice deontologico anche su internet)
Art. 5 (obbligo di aggiornamento permanente)
Art. 21 (divieto di insegnare tecniche psicologiche a non psicologi)
Va premesso che si è trattato di un referendum assolutamente inutile, voluto per motivi di consenso elettorale della nostra piccola "casta" in vista delle prossime (altrettanto inutili) elezioni ordinistiche e privo di qualunque elemento che potesse dare agli elettori effettiva capacità decisionale.
Infatti l'art 1 e 5 anche se non fossero stati riformati sarebbero stati comunque superati dalla legge e dal buon senso. Che chiaramente dicono che la deontologia vale "de visu" quanto su internet o in ogni altro luogo ove lo psicologo possa esercitare e che l'aggiornamento permanente è obbligatorio per ogni professionista che eserciti in Europa qualunque tipo di professione, regolamentata o no che sia.
L'art 21 invece, che altro non rappresenta che una sciocchezza intimidatoria, sostituisce un altro art 21 altrettanto ottuso intimidatorio e mai applicato... insomma che sia passato questo o che fosse rimasto in vigore il precedente non avrebbe fatto alla fine molta differenza.
Non ci stupiamo dunque della bassa risposta dei colleghi alla chiamata referendaria (solo il 13,72% degli aventi diritto ha partecipato al voto). Non è questa la figuraccia. I colleghi sono stati chiamati a partecipare ad una farsa e legittimamente la stragrande maggioranza di loro, alle prese con problemi di un mondo nel quale poco c'è rimasto da ridere, ha deciso di astenersi.
Il problema semmai, per chi lo vede come un problema poichè per altri di ennesima conferma si tratta, è che L'Ordine Nazionale degli Psicologi una volta di più ha dimostrato al mondo la sua sostanziale insipienza ed inesistenza. Sul Codice deontologico, carta fondante della comunità, riesce a mettere insieme un 13,72% di partecipazione. Wow! Un voto per ogni eletto della "casta" più una decina di sodali a testa. Ci si consola poi con il fatto che la partecipazione al precedente referendum era stata analoga.. Triplo wow! A qualcuno potrebbe venire in mente che è il sistema che non funziona? Forse non agli psicologi, ma certamente a molti politici...
Ma veniamo ad analizzare il merito.
Art 1 (applicabilità del codice deontologico anche su internet)
Qui non è tanto interessante il risultato ovvio bensì il fatto che il 15% dei votanti abbia votato "No".
E' il segnale, piccolo, di una protesta. I 1701 colleghi che si sono espressi in questi termini mandano un messaggio duro, di piena sfiducia, che sostanzialmente è traducibile così: "Qualunque cosa ci proponga l'Ordine, fosse anche la cosa più ovvia e scontata, è da respingere... Perchè? Perchè dell'Ordnine non ci fidiamo". Messaggio per me scontato ma sul quale i nostri dirigenti ordinistici dovrebbero avviare una seria riflessione.
Art. 5 (obbligo di aggiornamento permanente)
Questa è la vera e propria figuraccia che rende l'idea di una comunità professionale malata, arretrata, incapace di guardare a se stessa ed al proprio futuro.
Il 42% degli "amici della casta" (poichè i numeri parlano chiaro, solo i dirigenti della comunità professionale degli psicologi ed i loro più stretti amici, familiari e collaboratori, sono andati a votare) dice no all'aggiornamento permanente che è:
a) legge dello Stato e dell'Europa
b) una regola di buon senso che nessuna persona di media cultura, psicologo o meno, saprebbe confutare.
C'è di che vergognarsi
In ogni caso per gli psicologi liberi professionisti forse (perchè ancora il Ministero competente deve approvare e non è scontato che lo faccia) verrà introdotto (non si sa quando nè come) il sistema FCP.
Rimane comunque certo che l'accreditamento ECM rimmarrà obbligatorio per tutti i colleghi che lavorino nel pubblico, direttamente o in convenzione, e che sarà comunque valido per tutti gli altri.
Nel caso poi che la questione si risolva con l'obbligo ECM per tutti gli psicologi (cosa non improbabile) il numero di crediti ECM che ogni professionista della sanità è tenuto ad acquisire per ogni triennio è di 150, con un minimo di 25 ed un massimo di 75 per anno.
Il Mopi come noto sta organizzandosi per consentire a tutti i propri associati di adempiere agli obblighi senza costi eccessivi.
Art. 21 (divieto di insegnare tecniche psicologiche a non psicologi)
La questione è ormai più che nota e sostanzialmente inutile è il ripercorrerla, per chi comunque volesse farlo invito alla lettura di questo articolo a suo tempo pubblicato.
Il fatto è oggi squisitamente politico professionale e su questo piano occorre rispondere.
Si è voluto affermare (riaffermare) il divieto per gli psicologi di insegnare tecniche psicologiche a chi psicologo non è. E lo si è fatto attraverso una norma, peraltro già esistente, mai applicata e non applicabile in futuro. Ma occorre prendere atto che l'affermazione politica vi è stata.
Affermazione autolesionistica poichè attraverso l'intimidazione si otterrà unicamente il risultato di ridurre gli spazi occupazionali della comunità, ma pur sempre affermazione.
Bene. Ora occorre fare sul serio. Riteniamo che a questo punto il problema vada affrontato nella giusta forma contemporaneamente ossequiso delle regole che la comunità decide di darsi, della legislazione vigente, dei diritti associativi ed individuali a tutela della professione. Siamo dunque in attesa, e con un apposito ufficio legale ci prepariamo all'incombenza, dei numerosissimi procedimenti diciplinari che con coerenza gli Ordini vorranno da oggi approntare.
Ora, se la corporazione vuole almeno il rispetto di quei pochi suoi amici che l'hanno votata (il 13,72%) deve essere coerente e dimostrare, almeno a loro, di essere determinata.
Noi saremo con determinazione dall'altra parte a difendere le nostre idee e i nostri diritti".
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Psicologi e deontologia. Anna Barracco a proposito dell'art. 21
L'art. 21 è stato oggetto di forti critiche, fin dall'epoca del primo referendum per l'adozione del Codice deontologico degli psicologi.
Vi chiedo di comparare le tre differenti versioni: quella attuale (art. 21), quella in corso di approvazione in questi giorni (art. 21 nuova versione) e quella proposta a suo tempo dal CNOP (2009) e mai approvata.
Confronto e commento dei tre testi
L'art. 21 istituisce un principio generale, di responsabilità, in capo al professionista, che è peraltro già contenuto nell'art. 8 del Codice, e che sostanzialmente raccomanda al professionista di contrastare attivamente l'abuso della professione. Nella sua interpretazione più "nobile", dovrebbe garantire un uso responsabile degli strumenti della professione, per evitare la diffusione sbagliata,superficiale, inadeguata, di un sapere che facilmente potrebbe essere travisato o mal utilizzato (pensiamo all'operatore "selvaggio", che butta lì interpretazioni, che colpevolizza i familiari, ecc.).
In realtà però fin dall'inizio l'articolo, così come impostato, ha prodotto contenzioso all'interno della comunità professionale, perché le scuole di psicoterapia riconosciute dal MIUR radicarono dei contenziosi contro i direttori delle scuole in via di riconoscimento, le quali accoglievano nelle loro aule - come uditori o come allievi non aventi il diritto al diploma - persone provenienti da altri corsi di laurea.
Si poneva (E SI PONE) un problema di costituzionalità di questa posizione, di questo divieto di insegnamento, dal momento che nella Costituzione si afferma con chiarezza (art. 33 cost.) che "l'arte e la scienza sono libere, e libero ne è l'insegnamento".
Non solo, ma l'art. 32 cost., cui spesso gli Ordini si richiamano, a proposito di tutela della salute, ribadisce con chiarezza che nessun cittadino può essere obbligato a sottoporsi a cure, contro la sua volontà, se non nei casi previsti dalla legge.
Dunque l'art. 32 e l'art. 33 della Costituzione si pongono in assoluta continuità logica, stabilendo che la tutela della salute passa attraverso la garanzia assoluta del cittadino di potersi sottrarre alle cure, e dunque si pone un problema di garantirgli una scelta consapevole, responsabile, informata.
Pensiamo a tutta la questione (di tutt'altro genere) del passaggio dall'obbligo di vaccinazione, alla vaccinazione volontaria. Anche in questo caso, la cultura medica dominante tende a fare "pressioni" più o meno esplicite, e - complici le case farmaceutiche - il SSN tende a dispensare i sei vaccini in un unica somministrazione.
In realtà oggi i cittadini si informano, sanno che molti vaccini non solo non sono più indispensabili per proteggere da patologie che non ci sono più, ma anzi possono essere dannosi, produrre problemi al sistema immunitario, ecc.
Faccio questo esempio per dare un'idea di come i due art. 32 e 33,dove si afferma la libertà del cittadino di sottrarsi alle cure, dunque di scegliere da sé anche se curarsi o non curarsi (e non solo a quali cure eventualmente sottoporsi) e dove si afferma che le scienze e le arti sono libere, e libero ne è l'insegnamento, si dispongono a creare la cornice - in una logica dispositiva, di etica programmatica - entro la quale salvaguardare e difendere la crescita, l'empowerment, del soggetto, che si vuole possa passare da una logica passiva, ad una logica contrattuale.
In questa prospettiva, l'art. 21, fin dalla sua prima apparizione è stato fortemente criticato già dall'Antitrust, nel 1998, che ha imposto al Consiglio Nazionale di scrivere una circolare (allegato) che specificasse in modo circostanziato quali sono gli "strumenti" della professione la cui diffusione e il cui addestramento all'uso potessero essere vietati (sostanzialmente, andava specificato che si trattava dei test proiettivi, che, se fatti circolare, perdono la loro efficacia). Il CNOP si impegnò anche a recepire le osservazioni dell'Antitrust, e a modificare l'articolo.
In seguito però queste modifiche non vennero fatte dal CNOP, e la questione dell'insegnamento, della diffusione del sapere "psi", all'interno di corsi per operatori della cura, come assistenti sociali, educatori, counselor, infermieri, pedagogisti, psicomotricisti, ecc., ha continuato a configurarsi come una "spina nel fianco" per la Categoria, tanto che si cercò di definire gli "atti tipici" della professione, proprio per andare incontro all'esigenza del Legislatore, che sembrava quella di veder elencati gli "strumenti conoscitivi e di intervento" propri degli psicologi, in modo da poter eventualmente condannare sia chi ne abusasse, sia chi li insegnasse.
La formulazione del 2009 ipotizzata dal CNOP (ma mai votata, mai approvata), tenta di seguire un'altra strada, che è quella del principio di responsabilità, e non quello della specificazione di ciò che è l'atto dello psicologo.
Questa formulazione permette di giudicare solo"ex post", a partire dal processo che effettivamente è possibile ricostruire, se il professionista ha diffuso in modo inadeguato delle conoscenze; questo può essere verificato, in linea con il senso dei due articoli della costituzione (32 e 33) se il professionista non ha adeguatamente informato il formando, e non gli ha cioè spiegato molto bene i limiti entro cui egli potrà poi utilizzare le abilità apprese.
Questa formulazione è in realtà la più corretta, dal momento che il regime autorizzatorio condanna per esercizio abusivo chi ESERCITA una professione riservata, e non chi SI FORMA ad essa, o accede ad un sapere, anche specialistico.
Dunque è il soggetto che apprende che deve essere edotto dei limiti cui deve attenersi, nel caso in cui non sia abilitato per legge.
D'altra parte va da sé che ogni sapere professionale, e segnatamente il sapere psicologico, è un sapere pratico, che si giova della condivisione, della dialettica, dello scambio. Non solo nella relazione formativa con altri professionisti della relazione d'aiuto, ma anche nella relazione terapeutica, il terapeuta, o lo psicologo, "considera suo dovere accrescere le capacità del soggetto di comprendere sé stesso e gli altri, e lo mette in condizioni di agire in maniera consapevole, congrua ed efficace...." come recita peraltro l'art. 3 del nostro Codice deontologico.
Dunque non solo lo psicologo trasferisce competenze, ma anzi questo è un suo preciso dovere!
Esiste in un certo senso una tensione, una dialettica fra l'art. 3 del Codice deontologico, e l'art. 21.
Certo il limite di questa formulazione (questa del 2009, mai votata) dell'art. 21, è che rischia di diventare, come il consenso informato o l'informativa sulla privacy, un adempimento formale, un modulo diciamo...
"Faccio firmare il mio allievo, gli faccio dire che l'ho informato delle sue responsabilità e chi s'è visto s'è visto".
Purtroppo oggi esiste questo problema, questa deriva burocratica dell'etica, per cui il principio di responsabilità, l'esigenza di passare dal "consenso al contratto", la questione cioè dell'empowerment, si degrada in pseudo-informazione, pseudo- coinvolgimento.
Però se al testo di questo articolo, così formulato, si fosse affiancato un serio lavoro di accredtiamento, di definizione dei percorsi specialistici propri dello psicologo, e se si fosse proceduto a produrre linee guida per le buone prassi nei vari ambiti (es. linee guida per la psicologia dell'emergenza nei vari contesti, con relativi percorsi di formazione certificati, e lo stesso per la psicologia scolastica, giuridica, ecc.), si sarebbe potuto anche in buona parte ovviare a questo limite, decisamente "burocratico", molto ideale e poco falsificabile, che inevitabilmente una formulazione del genere assume.
Del resto, è proprio la competenza, l'ostensione dei percorsi che è alla base del criterio europeo - di matrice anglosassone - di verifica della specificità e della professionalità. In questo senso, è interessante e singolare il fatto che, accanto al "can can" fatto dagli Ordini attorno all'imminente revisione dell'art. 21 (nella versione che si commenterà in seguito), un' ennesima modifica è intervenuta, sullo stesso codice, per intervento esterno del legislatore (come già avvenuto, peraltro, nel 2006, con l'abolizione dei vincoli pubblicitari e tariffari, che hanno comportato la modifica dell'art. 23 e dell'art. 40), senza che la comunità professionale ne sappia per ora alcunché.
Oggi il legislatore è intervenuto a obbligare gli Ordini ad adeguarsi al principio della formazione continua e obbligatoria - criterio, si badi bene, cui gli Ordini si sono per oltre un decennio fieramente opposti, e su cui hanno fatto pochissima informazione ! - e dunque anche il nostro Codice è stato modificato ulteriormente, all'art. 5. Non è ancora dato conoscere il testo di questo nuovo art. 5 (l'art. 5 attualmente in vigore riguarda l'enunciazione generica, e quindi di principio - dell'obbligo del professionista di mantenere un'adeguata formazione, di aggiornarsi, di render conto delle fonti e dei modelli cui le sue pratiche si ispirano), ma è certo che esso conterrà non più un principio generico, ma l'obbligo di attenersi ad un piano di formazione e aggiornamento continuo, strutturato e verificato dal CNOP e dal Ministero della Salute.
Insomma si tratta dell'introduzione di un principio accreditatorio molto chiaro, che di fatto impatterà su tutta la struttura del Codice, indebolendo ulteriormente ed entrando ulteriormente in contraddizione, a mio avviso, con la logica del nuovo art. 21.
La soluzione individuata infatti oggi dal CNOP, con la nuova versione dell'art. 21, è palesemente incostituzionale, e se sarà portata davanti al Giudice, salterà di sicuro!
Questa versione tende a voler includere il colloquio all'interno degli strumenti dello psicologo.
Ogni colloquio che faccia riferimento a teorie e pratiche psicologiche, costituirebbe riserva professionale!
Se così fosse, si potrebbe obiettare che neanche il medico potrebbe accedere alle scuole di psicoterapia !
Ogni psicologo che insegna ad un medico, dentro ad una scuola di psicoterapia, a fare dei colloqui psicoterapeutici, infrangerebbe l'art. 21.
Certo nell'art. si parla del colloquio come attività "specifica",dello psicologo. I furbetti del CNOP hanno evitato la parola "riservata", ma anche la parola "caratteristica" (che sottende il fatto che si tratta di atto comune a più professioni) e usa il termine "attività specifica",a proposito del colloquio, nella speranza che i Giudici, nel caso per caso, propendano per una interpretazione che possa virare verso il concetto di "riserva".
Infatti, se l'attività è caratteristica, non è tipica, non è riservata! Nel diritto le parole non sono mai a caso..... Gli atti caratteristici, nel nostro ordinamento (autorizzatorio) sono quelli comuni a più professioni, a più ottiche.
Solo gli atti tipici sono riservati.
La psicoterapia è riservata a medici e psicologi (la parola "riservata", si trova, appunto, nella legge 56/89, all'art. 3), mentre per le altre attività, enumerate nell'art. 1 (diagnosi, formazione, sostegno, abilitazione, riabilitazione) il legislatore ha ritenuto di limitarsi all'elencazione di ambiti di applicazione condivisi, e dunque gli atti psicologici di sostegno avranno una loro caratteristica, una loro descrizione, ecc., diversa dagli atti di sostegno propri dei pedagogisti, degli insegnanti, ecc., così come gli atti psicodiagnostici, saranno diversi da quelli del medico.
Per questo, ritengo, l'astuto estensore, ha ritenuto di usare - nella formulazione del nuovo art. 21 - la locuzione intermedia di "attività specifica".
Si dice dunque che l'insegnamento dell'uso degli strumenti conoscitivi e di intervento a soggetti estranei alla professione, costituisce violazione deontologica grave.
Si dice poi che ulteriore aggravante sarà costituita dal concorrere a formare a soggetti che possono poi svolgere attività ingannevoli e abusive, indotti erroneamente a ritenere che potranno svolgere attività caratteristiche dello psicologo, attraverso l'ottenimento di diplomi.
Questo comma è stato scritto sicuramente prima che entrasse in vigore la legge 4/2013, e probabilmente il CNOP sperava che la legge non fosse approvata in quei termini, e ancora oggi spera che i Giudici stabiliscano che il counseling, la mediazione familiare, ecc., vengano definite attività proprie dello psicologo, cioè azioni professionali che ricadono sotto il perimetro di professioni ordinate.
Ma è una pia illusione, dal momento che anche le parole usate dall'estensore dell'articolo non rimandano ad alcuna riserva, né mai lo potrebbero fare! Dunque è una pia illusione quella di Altra Psicologia, che divulga- con gli articoli di Paolo Campanini - la certezza che queste professioni non otterranno la certificazione UNI, o che in ogni caso saranno portate davanti al Giudice e dichiarate illegittime.
Ma a parte queste considerazioni di carattere giuridico-applicativo (per approfondimenti si può vedere la sentenza di Lucca e il mio documento sugli atti titpici) occorre rilevare che la nuova formulazione dell'art. 21 è anticostituzionale, nelle sue intenzioni, perché limita inutilmente e dannosamente la diffusione del sapere psicologico, laddove gli atti tipici dello psicologo non sono stati definiti: non esiste, ancora oggi, alcuna distinzione operazionalizzabile fra colloquio di sostegno psicologico e colloquio psicoterapeutico, fra colloquio medico-psicoterapeutico e colloquio psico-pedagogico, ecc.
A fronte di questo, si crea ulteriore difficoltà nell'applicarlo, dal momento che si dice che è libera la diffusione e l'insegnamento delle teorie e delle conoscenze psicologiche.
Fin dove ci si può spingere a illustrare una teoria? Cosa impedisce di fare esercitazioni pratiche? Anche nei gruppi terapeutici, peraltro, si fanno inevitabilmente esercitazioni pratiche che hanno ricadute formative, né certo si potrà arrivare a impedire la pubblicazione di testi che possano diffondere anche riflessioni sulle pratiche, sulle applicazioni.
Infine, occorrerebbe anche considerare l'aspetto epistemologico ed etico, di questa impostazione.
Le discipline vivono del dialogo fra loro, e non della chiusura. Lo psicologo perde oltre tutto in questo modo sbocchi formativi, e la disciplina perde la sua "presa" sulla realtà, rischiando di implodere.
La formazione dei volontari, dei manager, dei religiosi impegnati nella residenzialità, degli educatori, degli infermieri, ecc., verrà probabilmente erogata da figure più in grado di collocarsi sul piano socio-pedagogico e antropologico-filosofico, o dai medici psicoterapeuti stessi...
Vi sono oggi moltissime figure che hanno costruito una loro identità professionale, e che si collocano sul segmento della prevenzione (area che non è certo appannaggio della sola professione medica, o delle sole professioni sanitarie) - oggi peraltro riconosciute all'interno di un dispositivo di legge , la 4/2013, e che a pieno titolo potranno trovarsi a fare domanda di formazione psicologica, formazione personale; questi professonisti, per il tipo di attività che svolgono, si avvantaggerebbero moltissimo di veder accresciute le loro competenze emotive. E si avvantaggerebbe tutta la società.
Voler concludere insomma che ogni colloquio è un "atto sanitario" e che la prevenzione è solo sanitaria, è solo appannaggio delle professioni sanitarie, sembra una strada assai rischiosa, certamente non in linea con il chiaro dettato costituzionale, e peraltro ben difficilmente sostenibile in sede giudiziaria, anche alla luce della nuova legge di regolamentazione delle professioni.