Nell'ultimo libro (La mia scuola è il mondo, edizioni Melograna), scritto con la figlia di 4 anni, l'autrice italo-marocchina insegna a grandi e piccoli cosa significa l'integrazione. Di religioni, razze, tradizioni. In particolare in Italia…
Hili ha quasi 4 anni, un nonno italiano e uno austriaco- romeno, una nonna marocchina e una ungherese- romena, una madre italo-marocchina e un padre romenoisraeliano. Hili è nata a Gerusalemme, vive tra Israele e Roma, Viareggio, Washington. Prima o poi conoscerà le nuotate estive in Marocco e in Versilia, paragonerà quel mare con le onde di Haifa. Anche la mamma di Hili è “strana”: Anna Mahjar Barducci si presentò in Italo marocchina (Diabasis), con semplicità e passione raccontò il suo albero genealogico, nonna Marcella e nonna Kebira, nonno Abdullah, babbo Mario e mamma Manal, le zie Fatna, Leila, Samia, Khadija, Amina, lo zio Ahmed.
Con ironia, battute dissacranti, con la vergogna controllata di chi condivide in pubblico le molte ombre e le poche speranze della saga familiare di parte marocchina. Ci disse che cosa vuol dire crescere tra Italia, Tunisia e Pakistan, laurearsi a Pisa, master in Spagna, poi Washington, al quotidiano Asharq al-Awsat, e innamorarsi di Yigal, ebreo, nato in Romania, cresciuto a Haifa. Farci una figlia. Chapeau. In un Paese come il nostro che si dice aperto, libero e intanto ti guarda e ti chiede, visto che parli così bene, se vuoi fare la badante. Ora Hili e Anna dipingono una realtà che è – e sempre più sarà – la nostra.
Parlano di integrazione, con genuinità, con la straordinaria forza del vissuto-in-prima-persona. Di nuovo un libro, anzi un libriccino, La mia scuola è il mondo, edizioni Melograna, presentato da quel Graziano Delrio sindaco di Reggio Emilia in odore di futuri ruoli governativi nonché presidente del Comitato per i diritti di cittadinanza “L’Italia sono anch’io”. All’insegna della multiculturalità. In nome, come dice Anna a Io donna, dell’integrazione «che non è assimilazione, bensì omogeneizzazione dei popoli nella diversità della religione e della cultura d’origine». C’è bisogno di un sentimento di appartenenza comune che trascenda le differenze.
Lei e Hili, spiega, riescono a integrarsi in ogni ambiente e in ogni parte del mondo, «grazie all’educazione che ho ricevuto, che cerco di trasferirle». Ma che fatica. «In Italia è ancora difficile capire che una donna con i tratti arabi come me possa essere italiana o che lo possa essere la mia bimba nata a Gerusalemme». Il ritornello, generazione dopo generazione, non cambia: «Parlate bene per essere straniere».
“La mia scuola è il mondo” è un tentativo di pedagogia interculturale. Che inizia a riempire un vuoto. «I nostri libri per l’infanzia sono legati a modelli sociali poco rappresentativi. I testi di italiano come Lingua 2 non fanno sentire il piccolo parte della società. Chi insegna ha sempre la carnagione bianca, ovvio che il piccolo di colore sia automaticamente classificato come straniero». Ancora: «Nelle fiabe i protagonisti sono solo bianchi.
I bambini di colore si trovano nelle collane dedicate alla mondialità, e anche in questo caso gli italiani sono bianchi e gli stranieri no. Non esistono figli nati da matrimoni cosiddetti “misti”». I protagonisti delle storie per l’infanzia non hanno mai una “doppia” cultura: o italiani o, chessò, senegalesi. «Così si spinge il figlio di immigrati a recidere le proprie radici o a circoscriverle a un “territorio”, la patria dei propri genitori o quella dove si abita».
Il risultato è davanti a noi: deficit di rappresentanza, modelli identitari sbagliati. E quei ragazzi di Prato con gli occhi a mandorla che dovrebbero parlare per forza con la “l” al posto della “r”, e “fa ridere” che abbiano la tipica “c” toscana aspirata...
Stefano Jesurum (da Io Donna Corriere della Sera)