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16/11/24 ore

Tony Blair, "Un'occasione per la Sinistra"



Il Paradosso della crisi finanziaria, nonostante tutti siano del parere che sia stata provocata da una carenza di regolamentazione dei mercati, è che non ha prodotto un deciso spostamento dei consensi verso la sinistra. Ma quello che potrebbe succedere è che la sinistra si convinca che questo spostamento è avvenuto e si comporti di conseguenza.

 

Il rischio, evidente qui in Gran Bretagna, è che il Paese ripiombi nella familiare battaglia fra destra e sinistra. La familiarità deriva dal fatto che questa contesa è stata l’elemento dominante del XX secolo. Il rischio è dovuto al fatto che questa contrapposizione non fa progredire la nazione, al contrario la debilita.

 

In questo momento il Paese è cristallizzato intorno a dibattiti su austerità, welfare, immigrazione ed Europa. Improvvisamente, parti del panorama politico che per alcuni anni erano state messe in ombra, almeno durante il periodo del New Labour e i primi anni dell’attuale Governo di coalizione, ritornano sotto la luce dei riflettori.

 

Il Partito conservatore torna a imbracciare lo stendardo della responsabilità di bilancio, corroborata da invettive contro i «parassiti del welfare», gli immigrati che tolgono lavoro ai cittadini britannici e – ovviamente – le mani bucate dei laburisti.

 

Il Partito laburista è tornato a essere il partito che si oppone ai «tagli della destra», che mette l’accento sulle conseguenze drammatiche delle politiche sociali dei conservatori e che rappresenta gli interessi delle persone vulnerabili e svantaggiate (i liberaldemocratici, detto con franchezza, sono un po’ in un vicolo cieco).

 

Per i Conservatori questo scenario è meno pericoloso di quel che sembra. La sinistra in questo momento li detesta, ma ci sono abituati. Sono tornati nel loro vecchio territorio: la realtà è dura, bisogna prendere decisioni difficili e stracciare il velo idealistico che impedisce alla sinistra di governare in modo assennato.

 

Il conservatorismo compassionevole andava bene quando la compassione era di moda. Ora non più. Ora quello che conta è rimettere la casa in ordine. Per il Labour è vero il contrario. Questo scenario è più pericoloso di quel che sembra.

 

La facilità con cui può riadagiarsi nel suo vecchio territorio della difesa dello status quo, dell’alleanza o addirittura dell’identificazione con quegli interessi che combattono appassionatamente e spesso giustamente quello che fa il governo, è a prima vista così proficua che l’esercizio di volontà politica non sta nell’andare in quella direzione, ma nel resistere alla tentazione di farlo.

 

Quale posizione dovrebbe assumere allora lo schieramento progressista, non solo in Gran Bretagna, ma nell’Europa in generale? Che cosa serve per fare opposizione con intelligenza e governare con saggezza? Dovremmo partire dal principio che siamo cercatori di risposte, non i depositari della rabbia della gente.

 

Nel primo caso dobbiamo essere freddi anche di fronte a problemi che suscitano grande passione; nel secondo caso siamo semplicemente gente che offre comprensione, non leader. E di questi tempi la gente cerca prima di tutto leadership. E allora cominciamo, per quanto riguarda la Gran Bretagna, analizzando la situazione del Paese.

 

La crisi finanziaria non ha creato l’esigenza di cambiamento, l’ha solamente messa a nudo. La demografia – la composizione della popolazione per fasce d’età – la tecnologia e la globalizzazione ci obbligano ad apportare modifiche radicali ai sistemi che abbiamo creato dopo il 1945. E questo a prescindere dalla catastrofe finanziaria del 2008 e dalle sue conseguenze.

 

Il Labour dev’essere molto deciso nello smentire la tesi che è stato lui a «creare» la crisi. Nel 2007-2008 il saldo di bilancio corretto per gli effetti del ciclo era inferiore all’1 per cento del Pil. Il debito pubblico era nettamente più basso che nel 1997, l’anno in cui i laburisti erano saliti al potere.

 

Nei 13 anni di governi del Labour, il rapporto debito/Pil è stato migliore che sotto i governi conservatori, dal 1979 al 1997. Naturalmente si può sostenere che intorno al 2005 sarebbe stato più prudente limitare la spesa pubblica. Ma l’effetto di questa mancanza è quasi insignificante rispetto al maremoto finanziario che è avvenuto a livello mondiale, a partire dalla catastrofe dei mutui subprime negli Stati Uniti.

 

Sia come sia, la crisi c’è stata e nessuno può essere autorizzato a governare se non affronta questa realtà. L’aspetto più pregnante è questo: anche se la crisi non ci fosse stata, la necessità di riformare radicalmente lo Stato nato nel dopoguerra è inequivocabile.

 

Per esempio: qual è la ragione dell’aumento della spesa in sussidi per la casa? Se la ragione è l’assenza di case, che dobbiamo fare per costruirne di più? Che dobbiamo fare per migliorare le competenze di chi è senza lavoro, dato che il più evidente ostacolo all’occupazione è proprio la carenza di qualifiche professionali? Che dobbiamo fare per spingere più in là le riforme della sanità e dell’istruzione introdotte dall’ultimo governo laburista, considerando gli eccellenti risultati che hanno prodotto? Qual è il giusto equilibrio fra assistenza universale e assistenza differenziata in base al reddito, per i pensionati? In che modo possiamo utilizzare la tecnologia per tagliare i costi e introdurre cambiamenti nel sistema scolastico, nel sistema sanitario, nella lotta alla criminalità e nella gestione dell’immigrazione? Che dobbiamo fare per concentrare l’attenzione sull’esclusione sociale vera, distinguendola dall’esclusione dovuta ad avversità temporanee? Come si possono sfruttare gli sviluppi relativi al Dna per ridurre la criminalità?

 

Ci sono altre venti domande simili, ma tutte implicano lo stesso approccio: un’indagine radicale, partendo dai principi primi, su dove e perché spendiamo soldi. In economia dovrebbe esserci un test molto semplice: cos’è che produce crescita e occupazione? Le aziende private in Gran Bretagna hanno riserve per circa 650 miliardi di sterline (760 miliardi di euro). Cos’è che darebbe alle aziende la fiducia necessaria per investire questi soldi? Che caratteristiche dovrebbe avere una moderna strategia industriale? Cosa possiamo fare per ricostruire il settore finanziario?

 

Non è necessario scendere troppo nei dettagli, non è questo che si aspetta la gente. Ma la gente vuole sapere da dove veniamo, perché questo può dare un’indicazione su dove andremmo se venissimo eletti. Delineiamo una risposta a questi interrogativi e avremo una visione del futuro. È un fattore fondamentale per i progressisti.

 

La questione non è (e non lo è da almeno cinquant’anni) se crediamo nella giustizia sociale. La questione è in che modo lo schieramento progressista può adempiere a questa missione mentre tutto intorno a noi i tempi, le condizioni e le realtà oggettive stanno mutando.

 

Avere questo tipo di visione moderna innalza il livello del dibattito e aiuta a evitare il pericolo di vittorie tattiche che portano a sconfitte strategiche. Significa, per esempio, che non dobbiamo andare da una parte su immigrazione ed Europa e dalla parte opposta su tasse e spesa pubblica. È un approccio che può scuotere un po’ le nostre sicurezze, ma che ci mantiene in una posizione centrale, più gratificante e più produttiva in prospettiva, sia per il partito che per il Paese.

 

© New Statesman

Traduzione di Fabio Galimberti

 

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“Un’occasione per la sinistra” di TONY BLAIR

da La Repubblica del 12 aprile 2013


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