di Federico Rampini
(da Corriere della Sera)
«È iniziata la disfatta militare della Russia. Putin ha sbagliato a voler ricostituire la sfera d’influenza dell’Unione sovietica. La sua violazione della sovranità di altri Stati è la più grande minaccia per la pace, la stabilità e la sicurezza dell’Eurasia». Queste affermazioni non susciterebbero sorpresa se non per l’autore: Gao Yusheng, ex ambasciatore cinese in Ucraina. Il sito dove era apparsa questa sua analisi ha dovuto cancellarla, ma nel frattempo aveva fatto il giro del mondo. È una sconfessione della scelta strategica di Xi Jinping di appoggiare con «amicizia illimitata» Putin.
La critica implicita del diplomatico cinese al proprio presidente giunge mentre a Pechino si moltiplicano i mormorii di malcontento che dalle alte sfere del partito comunista trapelano fino a raggiungere la stampa estera. Non siamo di fronte a una vera opposizione interna, e rimane probabile che questo autunno Xi incoroni se stesso con un mandato a vita. Però all’appuntamento con la propria «rielezione» ci arriva carico di guai. Molti se li è cercati.
Fra le tante previsioni sbagliate di questo periodo spiccano le sue. Oggi Xi forse è l’uomo più potente del pianeta, a giudicare dall’accentramento di potere personale. Eppure tutto sembra andargli storto: il Covid non si piega ai suoi feroci lockdown; l’economia rallenta; i capitali esteri se ne vanno. Su tutto incombe l’enorme rischio che il leader cinese ha deciso di correre schierandosi con l’aggressore russo.
Queste turbolenze non sono tutte collegabili fra loro, tuttavia un filo rosso le unisce: la rigidità del regime autoritario, sempre restìo ad ammettere errori. La politica «zero Covid» infligge restrizioni sproporzionate: per spegnere dei focolai di contagio ha messo in lockdown duro 45 città con una popolazione totale di 373 milioni di abitanti, tra cui la capitale finanziaria Shanghai. L’area del Paese che subisce limitazioni severe vale il 40% del Pil. Poiché Xi ha raccontato al suo popolo che la risposta occidentale al Covid è stata un disastro mentre la sua è un capolavoro, è costretto a tenere duro. Quando il direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità ha osato definire sbagliata la strategia «zero Covid», è stato censurato.
I danni all’economia si vedono. Xi aveva promesso quest’anno un aumento del 5,5% del Pil e il sorpasso sulla velocità di crescita degli Stati Uniti. Il Fondo monetario già taglia di oltre un punto questa previsione. Rispetto alle performance passate della Repubblica Popolare sarebbe un rallentamento inquietante. Gli investitori stranieri hanno smobilitato 30 miliardi di dollari di bond cinesi in due mesi e disertano la Borsa.
Pesa anche la mano pesante usata da Xi contro i suoi colossi digitali: il leader comunista ha voluto imprimere una sterzata a sinistra alla politica economica, ufficialmente per ridurre le diseguaglianze, di sicuro per sottomettere dei capitalisti troppo autonomi. Il dinamismo dell’economia ne risente. Ora Pechino per scongiurare la crisi promette di tornare alla ricetta statalista: un nuovo boom di investimenti pubblici in infrastrutture. Funzionò in passato, al prezzo di creare pericolose bolle speculative nel mercato immobiliare, che oggi trema sotto l’ondata di fallimenti.
La guerra in Ucraina è un danno ulteriore, almeno nel breve periodo. L’inflazione delle materie prime è una tassa pesante per la nazione che è la più grande consumatrice di energia del pianeta. L’economia cinese è stretta fra costi di produzione che salgono, fabbriche chiuse per lockdown, mercati di sbocco che si restringono per il rallentamento mondiale della crescita.
Xi non aveva in mente questo scenario, quando il 4 febbraio scorso ricevette Putin a Pechino, ne cantò le lodi, proclamò un’alleanza sempre più stretta fra le due nazioni. Appena l’aggressione ebbe inizio la diplomazia cinese fece propria la teoria dell’accerchiamento: tutta colpa della Nato. Per tutelare gli interessi di Pechino, Xi avrebbe fatto meglio a usare il suo ascendente su Putin per dissuaderlo dall’attacco militare.
Certo nel lungo termine una Russia sempre più debole è destinata a diventare una colonia della Cina, che potrà usarne le risorse minerarie ed energetiche. Il guadagno compensa i costi che Pechino rischia di pagare nei suoi rapporti con l’Occidente? Le grandi aziende cinesi si stanno barcamenando per sfruttare le opportunità di business con la Russia, senza però incappare nelle sanzioni occidentali. Alcune ci riescono. Altre hanno preferito battere in ritirata e chiudere le filiali russe, pur di non mettere a repentaglio l’accesso al ben più ricco mercato degli Stati Uniti e dell’Europa.
Ancora di recente il leader cinese ha rilanciato il tentativo di scavare divisioni tra Bruxelles e Washington: con frasi come «evitate la mentalità da guerra fredda» e nuove allusioni al ruolo negativo della Nato, ha invitato l’Unione europea a dissociarsi da Biden. Per adesso l’unica cosa che incassa è un’ulteriore diffidenza europea nei suoi confronti.
Una recente indagine della Camera di commercio europea in Cina rivela che molte aziende presenti su quel mercato stanno pensando a ridimensionare la propria attività. Non giova presso i governi e le opinioni pubbliche europee, un gesto come l’arresto del cardinale cattolico di Hong Kong (poi rilasciato su cauzione). Se il regime comunista è intenzionato a costruirsi un «soft power», un’influenza internazionale fondata anche sulla capacità di seduzione, Xi è un corteggiatore maldestro.
Su un altro fronte Taiwan studia la lezione dell’Ucraina. L’isola che Xi minaccia di annettere alla Repubblica Popolare è in procinto di comprare nuove armi americane scelte su misura per una «strategia del porcospino»: arsenali studiati per rendere molto indigesta la preda all’aggressore.
Poiché Xi proclama in modo esplicito l’intenzione di sanare quella che ai suoi occhi è l’anomalia di Taiwan (provincia ribelle nel linguaggio della propaganda, ma anche unica democrazia cinese), pure qui la scelta di assecondare Putin rischia di complicare i suoi piani. Perfino l’avvicinamento di Finlandia e Svezia alla Nato è una brutta notizia per Xi visto il recente interesse dell’alleanza per l’Indo-Pacifico.
Se non bastassero quelli di Mosca, gli errori commessi a Pechino dovrebbero insegnarci a non prendere per buona la narrazione degli autocrati sulla loro infallibilità.
(da Corriere della Sera)