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16/11/24 ore

Paolo Mieli: Se il conflitto in Ucraina devasta anche le nostre menti



di Paolo Mieli 

(da Corriere della Sera)

 

Si può fare ancora qualcosa per evitare che modi e toni da Guerra Fredda devastino una volta di più le nostre menti? Chiariamo subito: in tempi come questi, è, più che legittimo, doveroso prendere posizione su questioni come la necessità, o meno, di fornire armi alla resistenza ucraina. O su quale sia la miglior via per raggiungere l’obiettivo che tutti ci riproponiamo, la riconquista della pace

 

Ed è altrettanto doveroso approfondire (come ieri ha fatto su queste colonne Angelo Panebianco) le implicazioni di una scelta o dell’altra. Beninteso: il discorso vale, identico, per chi - nel merito - la pensa in modo opposto a quello di Panebianco e di chi scrive, cioè che (purtroppo) sia utile e giusto inviare le armi a Zelensky.

 

Ma - per tutto il resto - dovremmo sforzarci di non tornare al clima dei primi Anni Cinquanta. Anni nei quali, in margine alla guerra di Corea, in molti tollerarono un inquinamento delle proprie menti. Furono lasciate correre - sul fronte anticomunista - evidenti panzane ai danni di attori, registi e sceneggiatori di Hollywood e non solo loro. Le conseguenze sulle loro vite e, quel che qui ci interessa, sulle menti di milioni di persone furono devastanti. A poco è valsa poi la riparazione iniziata all’inizio del decennio successivo per merito principalmente di John Fitzgerald Kennedy.

 

A poco o comunque non abbastanza. Sul fronte opposto, negli stessi anni venne imbastita una campagna sulla base di «informazioni» del giornalista australiano Wilfred Burchett secondo il quale il comandante in capo delle forze statunitensi Matthew Ridgway aveva contaminato il nord della penisola con zanzare, pulci e rettili avvelenati. Ridgway fu ribattezzato «Generale peste». Contro la sua supposta guerra batteriologica in tutto il mondo scesero in piazza milioni di persone: moltissimi furono arrestati.

 

Gli ideatori di quelle offensive ideologiche, Joseph McCarthy e - con responsabilità infinitamente minori - Burchett, non pagarono dazio. La guerra d’Ucraina rischia ora di riprodurre - oltre a quelli già terribili della guerra in sé - i danni mentali di settant’anni fa. Soprattutto in Italia. Negli altri Paesi, quantomeno quelli occidentali, non si registra la scompostezza che caratterizza il nostro discorso pubblico.

 

Fuori dai nostri confini c’è stato sì qualche delirio, ma in dosi infinitamente minori. Qui da noi c’è toccato di assistere alla campagna contro i corsi universitari sui classici russi. A quella per la rimozione di statue e insegne con riferimenti alla storia passata del Paese che ha invaso l’Ucraina. A quelle contro direttori d’orchestra, cantanti d’opera provenienti da Mosca o San Pietroburgo. Per poi passare a tennisti assieme ad altri campioni sportivi.

 

E scendere in seguito alle penose scaramucce per ostacolare la presenza di «ospiti putiniani» nelle trasmissioni tv, la riproposizione dei dibattiti (chiamiamoli così) della televisione russa, le interviste «senza contraddittorio» a questo o quel personaggio della scena politica moscovita. Fino ad invocare ridicolmente l’intervento del Copasir.

 

A questo punto è bene distinguere: un conto è indignarsi per le dichiarazioni antisemite del ministro Lavrov, altra cosa è considerare il pubblico televisivo o quello dei lettori di giornali come un ammasso di esseri suggestionabili da difendere dalla propaganda del Cremlino. Tratteniamoci finché siamo in tempo. Nel mondo in cui ci troviamo a vivere è davvero stolto pensare di ottenere effetti positivi con l’esercizio dell’arte della proibizione o della censura. Anzi, è certo che per questa via ci si incammina verso l’abisso.

 

Allo stesso modo, ci permettiamo di suggerire al fronte autodefinitosi «pacifista» qualche maggiore cautela e qualche prova di rigore nell’esporre le proprie ragioni. Ce li ricordiamo tutti quei commentatori televisivi che, quando le truppe russe erano ad ogni evidenza in procinto di invadere l’Ucraina, esibivano con protervia la certezza che si trattasse di fake news. Abbiamo vivida reminiscenza di quegli altri che, alla vista delle prime rovine e delle vittime causate per la maggior parte dai missili di Putin, sostenevano pubblicamente trattarsi di un set cinematografico e di comparse ingaggiate alla bisogna.

 

Quelli che rinfacciavano ai giornalisti che intervistavano dolenti sfollati, d’essere stati a colloquio con dei «passanti». Resteranno impresse nella nostra memoria alcune incursioni nella storia secondo cui era stato giusto rifornire d’armi la Resistenza italiana solo perché — a differenza di quella ucraina — aveva avuto un ruolo aggiuntivo rispetto alla decisiva avanzata degli eserciti alleati.

 

O che la Seconda guerra mondiale ebbe origine dall’ostinazione con cui Francia e Gran Bretagna nel settembre del ’39 rispettarono il patto di difendere la Polonia invasa dai nazisti (e pochi giorni dopo dai russi). Colpa della Nato sarebbe oggi quella di essere stolta come allora lo furono inglesi e francesi. E potremmo continuare...

 

Ciò che colpisce non è che qualcuno abbia detto delle sciocchezze. Capita a tutti. Sull’uno e sull’altro versante. Ma si è su una brutta strada quando nessuno si sente poi in obbligo di dare pubblicamente atto d’essersi sbagliato. Neanche quando basta guardare alle cose senza eccessivo pregiudizio per capire che si è trattato di errori. Talvolta clamorosi.

 

Ed eccoci al punto: quando vien meno la buonafede e non si è disposti a riconoscere una propria cantonata, allora vuol dire che la guerra ha prodotto un danno in più, oltre a quello provocato con le morti e le distruzioni. Ha danneggiato le menti.

 

(da Corriere della Sera)

 

 


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