di Carlo Nordio (da Il Messaggero 18 marzo 2015)
Le parole del presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, secondo il quale il governo ha schiaffeggiato i giudici e accarezzato i corrotti, sono ingiuste e dannose. Dannose, perché inaspriscono l’eterna polemica tra toghe e politica. E ingiuste, perché il governo non ha somministrato né schiaffi né carezze. Ha soltanto alzato la voce, e la voce si perderà nel vento.
Lo schiaffo sarebbe rappresentato dalla nuova legge sulla responsabilità civile: un provvedimento che colpirà solo il nostro portafoglio, già ampiamente protetto da costose assicurazioni. Se l’Anm avesse voluto criticare seriamente il governo avrebbe potuto e dovuto farlo quando con un bizzarro decreto legge ha pensionato i 500 magistrati più importanti d’Italia, con la conseguenza di paralizzare gran parte dei processi e l’attività del Consiglio Superiore della Magistratura. Quello sì, più che uno schiaffo, è stato un calcio al fondoschiena.
Le carezze (ai corrotti) non si vede invece in cosa consistano. Al contrario, il governo ha fatto quanto l’indignazione collettiva chiedeva: ha creato nuovi reati, inasprito le già pesanti sanzioni, incrementato gli strumenti investigativi, aumentato i tempi della prescrizione. Nessuno può sinceramente dubitare che sia animato dalle migliori intenzioni. Si tratta solo di vedere se queste misure siano risolutive, o almeno utili. E secondo noi non lo sono.
Non lo sono perché ancora una volta confondono i "motivi" della corruzione con gli "strumenti" con i quali essa viene consumata, e si concentrano sui primi trascurando i secondi.
I motivi sono tanti, ma prendiamone due ad esempio: l’avidità umana e i costi della politica. Per la prima si è pensato alla repressione penale: sei un amministratore infedele e rapace? Ti aumento i reati e gli anni di galera. Per i secondi si è detto a suo tempo: finanziamo i partiti legalmente. Poi si è visto che le pene non son servite, e i partiti, una volta legalmente e copiosamente finanziati, hanno rubato ancora di più.
E sarà sempre così finché si vorrà combattere la corruzione intervenendo sulle sue cause, perché esse sono molteplici, e soprattutto ineliminabili: è dai tempi di Lisia che leggiamo di processi contro i corrotti, in tutti i regimi e in tutte le latitudini, con pene esemplari che non hanno mai intimidito nessuno.
Perché il criminale a tutto pensa, tranne alla possibilità di essere scoperto, preso e quindi punito. Soprattutto in un sistema sfasciato come il nostro, dove si entra in prigione prima del processo da presunti innocenti per uscirne subito dopo la condanna, da colpevoli conclamati.
Se l’intimidazione dunque non può agire sui motivi della corruzione, occorre intervenire sugli "strumenti" che la rendono possibile. E questi strumenti sono le leggi esistenti: numerose, ingarbugliate, contraddittorie, incomprensibili. È maneggiando queste norme che il ministro, il sindaco o qualsiasi organismo pubblico può vessare il cittadino chiedendogli un compenso illecito. E senza nemmeno esporsi troppo.
Rallentando l'iter amministrativo, sarà lo stesso imprenditore a capire che, prima o dopo, dovrà ungere le ruote, e da vittima diventerà istigatore, anche se sarà stato il sistema a costringerlo ad attivarsi in modo illegale. Con il fatale corollario che quando la corruzione assume proporzioni estese e infiltrazioni capillari, contagiando tutti i settori della vita civile, e germinando progressivamente dai settori più modesti dell’impiegato comunale a quelli più elevati dell’alta amministrazione, subisce una trasformazione genetica. Non perde il suo connotato criminoso, ma lo altera e lo decompone.
Diventa, in definitiva, un fenomeno culturale. E quindi va affrontato con strategie di ampio respiro, essenzialmente educative, sempre ricordando il monito di Tacito: «Corruptissima republica, plurimae leges».
Più lo Stato è corrotto, più le leggi sono numerose; e più aumentano, più lo Stato si corrompe. Bisogna dunque ridurre, e soprattutto semplificare, quelle esistenti: perché il corrotto, prima ancora che essere punito o intimidito, va disarmato.
(da Il Messaggero 18 marzo 2015)