In questa campagna dei referendum sulla giustizia abbiamo visto tutto il repertorio da filodrammatica di quart’ordine, che contraddistingue i protagonisti del dibattito pubblico e quindi modella la democrazia fittizia del nostro Paese. Dalla data della sua apertura, il 7 aprile, abbiamo avuto lunghe settimane di assoluto silenzio, interrotte soltanto dalle considerazioni di qualche comprimario volte a persuadere che il tema giustizia era qualcosa di distante dalla vita dei cittadini, poco coinvolgente.
Una evidente panzana, visto che non c’è nessuno che non viva sulla propria pelle le conseguenze della giustizia da “quarto mondo”: sei milioni di cause in corso, tre innocenti al giorno in carcere, centinaia di milioni di risarcimenti per la giustizia negata e ripetuti richiami da parte degli organi internazionali all’Italia per il modo in cui opera l’ordine giudiziario.
Altri attori fuori parte sono stati i partiti nel loro complesso, che hanno abdicato al compito costituzionale di concorrere a determinare la politica della nazione, ignorando e nascondendo la valenza tutta politica della questione giustizia, unica e vera emergenza che vive questa Italia condannata a vivere nel rancore e nella barbarie di un giustizialismo, che è all’origine della depressione generale dell’economia e della società.
Ma a occupare la scena con gestualità scomposte e sproloqui insensati è stata soprattutto la compagnia di giro che presiede ai media nostrani: dai personaggi dei talk televisivi agli avanzi rimasti della carta stampata. In contrasto con la mitica e in Italia quanto mai falsa definizione della stampa, quale custode della democrazia e voce dell’opinione pubblica, le televisione e i giornali hanno operato per affossare non solo la partecipazione popolare al voto ma persino la conoscenza dei problemi che i referendum sollevano.
Sino all’ultima plateale deturpazione, operata dal quotidiano «la Repubblica» nel giorno della vigilia elettorale. In un articolo in prima pagina, firmato da Franco Bei a nome di tutto il giornale, leggiamo: “Alla vigilia del voto pensiamo sia giusto far conoscere la posizione del nostro giornale. Riteniamo che su tutti e cinque i quesiti sia opportuno votare NO oppure non recarsi alle urne, per non consentire il raggiungimento del quorum”.
«la Repubblica», o quel che resta, si conferma dunque non come giornale, palestra per il confronto di opinioni, ma vero e proprio “partito” che – come un monolite – assume una posizione politica, guardandosi bene dal farlo secondo le regole del gioco democratico. Un “partito” che non ha bisogno di congressi, né si sottopone al giudizio degli elettori. In tal modo una testata, che dipende da una proprietà editoriale, si arroga i compiti propri delle forze politiche.
Ancora una volta, in questa vigilia del voto referendario scopriamo quale sia il vero ruolo giocato dalla informazione: contribuire all’assassinio della politica e della partecipazione democratica, alimentando da un lato ribellismi sterili e, dall’altro, ridurre gli spazi del coinvolgimento popolare, così da dare campo libero a oligarchie ormai in netto contrasto coi reali interessi della collettività.
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