All’indomani dei referendum sulla giustizia, sia i promotori che quanti li hanno avversati hanno espresso le loro considerazioni sulle cause della ridotta partecipazione alla consultazione, mancando così di conseguire il quorum della metà più uno degli elettori.
I favorevoli hanno insistito soprattutto sul silenzio e sul depistaggio informativi – evidenziati del resto anche su «Agenzia Radicale» sin da prima dell’avvio della campagna referendaria – oltre che sull’aperto intento di sabotarli, manifestato tanto da settori delle istituzioni quanto di diverse forze politiche.
Viceversa i contrari hanno attribuito a più ordini di ragioni i motivi dello scarso appeal di questi referendum: perché troppo specialistici e difficili da comprendere; perché distanti dagli interessi della popolazione; perché dei temi della giustizia dovrebbe occuparsi il Parlamento, senza pretendere che i cittadini cavino le castagne dal fuoco ai politici; perché i referendum dovrebbero riguardare argomenti di ordine etico e/o di grande coinvolgimento del popolo e non questioni di ambito circoscritto.
Probabilmente una parte di verità è contenuta in entrambe le serie di valutazioni. Tuttavia, a nostro avviso, poiché appunto parziale nessuna di esse coglie l’aspetto più essenziale che riguarda il successo o meno di un referendum. Se consideriamo le diciassette tornate referendarie che dal 1974 in poi si sono susseguite, è possibile notare come il livello di partecipazione popolare, la loro “presa” sull’elettorato non dipendono né dall’argomento, né dalla specificità o difficoltà dei quesiti proposti.
Forse che i referendum sulla procreazione assistita del 2005 non erano coinvolgenti a livello etico e di interesse generale, travalicando i confini settoriali per investire le scelte di vita di ognuno. Eppure i votanti furono soltanto il 25,9%. Altrettanto può dirsi per la consultazione del 2003, circa i rapporti di lavoro: forse che non era un tema coinvolgente dal punto di vista sociale, interessando le modalità di trattamento dei lavoratori? Ma anche in quel caso solo il 25% si recò alle urne.
Al contrario, quesiti estremamente ostici o di natura complessa come quelli del 1991 e del 1993 sulle leggi elettorali videro la partecipazione di oltre 35 milioni di votanti (76,8%), o quello sulla responsabilità civile dei magistrati nel 1987 per cui votarono in quasi 30 milioni.
Il vero discrimine, allora, che fa la differenza tra un referendum ad alta partecipazione e quello senza quorum, sta nella valenza non solo politica ma pure emotiva di cui viene caricato il confronto democratico che l’accompagna. E si sa, la democrazia è soprattutto una battaglia di idee, visioni del mondo e prospettive che si confrontano.
Ogni qualvolta i referendum sono stati recepiti, o fatti recepire, in questi termini hanno sempre raggiunto la gran parte degli elettori. Anche quando riguardano problemi non immediatamente comprensibili in ogni loro sfaccettatura: lo dimostra l’ultimo referendum con oltre il 50% di partecipanti nel 2011, quello sull’acqua pubblica, giunto dopo ben sei consultazioni prive di quorum e che calamitò l’attenzione per il valore di opposizione politica attribuito alla scelta, obiettivamente scarsamente significativa sul piano pratico.
Ad essere davvero mancata in questi referendum sulla giustizia è stata la capacità di essere colti come una scelta, direi quasi, esistenziale. Eppure possedevano tutti i caratteri per esserlo. Non si trattava infatti di pronunciarsi tanto sui criteri o le modalità di gestione degli uffici giudiziari, come suggerito nelle noiose tribune allestite dalla RAI, ma di stabilire in quale Italia si vuole vivere: se in quella della barbarie giustizialista, della gogna e del rancore, o in quella del rispetto delle regole e della dignità dei cittadini che non può essere calpestata dall’abuso esercitato attraverso l’arbitrio di poteri incontrollati.
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