... I limiti governativi del governo Conte diventano evidenti a partire dalla scorsa estate, preceduta dall’imbarazzante passerella degli Stati generali per la ripresa, tant’è che se un altro rimprovero va rivolto a Matteo Renzi è di aver atteso dicembre 2020 per formalizzare la crisi di una compagine ormai indifendibile. Già alla fine dell’estate, infatti, viene intuito che, dato il rischio di una seconda ondata di contagi, bisognava puntare tutto sui vaccini e sui siti e gli operatori sanitari che dovevano provvedere alla vaccinazione. Tant’è che Stati Uniti e Gran Bretagna si sono subito preoccupati del loro reperimento, mentre l’UE tardava e l’Italia nemmeno ne parliamo... Dei rapporti M5S-PD e altro discutono nella conversazione che segue Giuseppe Rippa e Luigi O. Rintallo...
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Luigi O. Rintallo - Se guardiamo alla storia recente dell’Italia, è possibile ricavare una costante: ad ogni momento di svolta che poteva portare a un cambiamento della sua condizione pre-moderna e dell’assetto dei gruppi dominanti, questi ultimi hanno operato nel senso della restaurazione e della preservazione dello status quo.
È stato così al giro di boa degli anni ’70, quando il movimento dei diritti civili innescò una stagione che poteva portare già allora ad aprirsi verso una compiuta democrazia dell’alternanza, subito compressa dal consociativismo che trovò la sua obbligatorietà nell’emersione del “partito armato” durante gli anni di piombo; è stato così vent’anni dopo, con Tangentopoli, quando si smantellò il sistema dei partiti e, attraverso la campagna giustizialista e l’anti-politica, si interruppe ogni prospettiva di riforma per impantanarsi nella palude stagnante di una transizione che ancora perdura. All’epoca di Mani pulite, col libro-intervista che facemmo, Hanno ammazzato la politica, evidenziasti il disagio di fronte a quella che subito si era rivelata come una “falsa rivoluzione”.
Oggi nuovamente si fa un gran parlare di novità e si assiste all’agitarsi di nuovi soggetti della politica. È di queste ore l’investitura a capo politico del Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, l’ex presidente del Consiglio dei governi pentastellati prima con la Lega e poi col PD: anche stavolta, dietro il discorso veramente imbarazzante per vaghezza col quale Conte ha accettato, appare un divario enorme fra apparenza e realtà. Un ruolo calato dall’alto, in spregio a qualsiasi dialettica minimamente democratica, che lascia interdetti non solo per il fatto in sé, ma per il modo in cui è stato accolto supinamente dai media. Eppure meriterebbe di essere oggetto di una qualche riflessione…
Giuseppe Rippa - È più che opportuno inquadrare in termini storici il particolare fenomeno della “democrazia fittizia” che si vive in questo Paese. Hai messo giustamente in evidenza come il suo carattere restaurativo sia una costante, per quanto condita da una mirabolante rappresentazione del cambiamento. Che ha però del paradossale, perché è un cambiamento inquadrato entro il linguaggio, il continuismo e le logiche – molto spesso rese invisibili alla cittadinanza – che in qualche modo assicurino l’élite dominante. Quest’ultima assorbe anche individualità utili ai suoi scopi conservativi: Conte è il classico rappresentante di raccordo con il sistema corporativo, ne è l’ideale interfaccia con una politica che ha abdicato alle sue funzioni di analisi, indirizzo e controllo delle situazioni.
Adesso Giuseppe Conte è spinto sulla ribalta della scena mediatica, con il supporto del Partito Democratico – che, ahimè, non ha nulla di democratico sia per come si è formato, sia per le strutture che lo rappresentano coincidenti coi residui alogenici dei democristiani di sinistra e degli ex comunisti, in una riformulazione sconcertante di quel “compromesso storico” che ha come obiettivo l’annullamento delle domande di libertà – e ciò corrisponde perfettamente all’approdo “discendente” che ha assunto la dialettica politica del nostro tempo.
Negli anni ’70, attraverso le intuizioni di Marco Pannella, i radicali canalizzarono invece una domanda “ascendente” che partiva dai cittadini e la iscrissero nelle istituzioni, attraverso i referendum sia pure nella modalità meramente abrogativa prevista dalla Costituzione. Attraverso quel percorso, si costruiva una possibilità di cambiamento dentro l’impianto della Costituzione e, contemporaneamente, modernizzandola perché, nata nel 1946 col processo storico del dopo-fascismo e densa di valori importanti, aveva bisogno di incardinarsi nella prospettiva di mutamento in corso dopo gli anni ’60. Le battaglie radicali davano la possibilità di realizzare questo cambiamento sul terreno dell’opzione referendaria prevista dal testo costituzionale e, per questo, furono da subito sottoposte a una criminalizzazione.
La domanda di cambiamento è stata così riassorbita per poterla dominare, arrivando anche alle aberrazioni delle sentenze della Corte Costituzionale che non rispondevano a criteri giurisdizionali ma servivano al regime per impedire che ci fossero degli strappi alle dinamiche di controllo verticistico ed eterodiretto sulla società. I casi da citare sono infiniti, dal pronunciamento sul referendum della smilitarizzazione della Guardia di Finanza modificato nottetempo in senso contrario al suo svolgimento al mancato rispetto dei risultati referendari che avevano visto la vittoria dei promotori come quello sulla responsabilità civile dei magistrati.
Ogni qualvolta si è cercato di trasferire la domanda di cambiamento, con il rigore concettuale di una impostazione liberale e costituzionale, questa è stata bloccata. Una impostazione che evidentemente disturbava la “razionalizzazione” dominante dei gruppi di potere, in un processo di regime che non era lineare ma aveva delle contraddizioni al suo interno. Tuttavia, l’intelligenza di fondo era proprio quella di tenere bloccato il Paese nella sua natura fondamentalmente pre-moderna, sino a produrre le conseguenze catastrofiche che ben conosciamo totalmente assorbite da un sistema che si è nutrito di aumento incontrollato del debito pubblico, favorendo un parassitismo corporativo diffuso che ha finito per ammorbare la stessa coscienza degli Italiani, i quali non sono in condizione di formulare una piattaforma che sia in grado di produrre i passaggi necessari per una reale dialettica democratica che muova dalla certezza dello Stato di diritto.
Di “falsi cambiamenti” abbiamo esperienze ripetute. Già nel 1992, con Mani Pulite, emerse che la dimensione del cambiamento si può ridurre al fatto che chiunque avversa la corruzione, ma alla fine da quelle inchieste si trae un bilancio desolante. Hanno avuto come obiettivo la distruzione di certe forze politiche a vantaggio di altre: al 20% di politici che furono estromessi violentemente dalla scena corrisponde un altro 80% è stato oculatamente risparmiato. Un meccanismo che rispondeva piuttosto a un disegno eterodiretto che non a un effettivo intento di risanamento delle degenerazioni intervenute. Tant’è che oggi è convinzione diffusa che i processi corruttivi sono aumentati e nient’affatto sgominati.
L.O.R. - È proprio allora che si accentua l’omologazione del sistema informativo nel segno dell’anti-politica, funzionale agli interessi delle oligarchie finanziarie che – andrebbe sempre ricordato – detengono il controllo economico su gran parte dei media…
G.R. - Negli anni ’70, penso a come si fermò l’onda innovatrice del movimento dei diritti civili attraverso il terrorismo brigatista, fu la RAI a esercitare il ruolo principale di ammorbamento e impedì che si potesse esplicitare il livello di scontro sostanziale promosso invece dai radicali. Quella RAI che è diventata poi la produttrice della schiera dei soggetti che compongono oggi il modello informativo, che resta ancorato fondamentalmente alla televisione. Sappiamo infatti che la carta stampata è precipitata al 10% nella sua capacità di influenzamento dell’opinione pubblica, mentre anche il web è sollecitato e alimentato dalla televisione da dove promana il principale nucleo di infezione che deforma la percezione generale dei fatti. Una infezione che dalla RAI si è esteso a Mediaset, La7, Sky, Discovery sempre coi caratteri della subcultura che produce lo stesso identico “racconto” propostoci tutti i giorni. Non è il racconto dei fatti, anzi.
Nonostante siano cresciuti enormemente i luoghi e le occasioni della sua divulgazione, con talk show e trasmissioni su ogni rete, il paradosso è che diminuisce sempre di più la consapevolezza di cosa realmente accade e di quali siano i termini delle questioni. Il tutto all’interno di una perversione per la quale si è predisposto che il soggetto sociale dev’essere a un tempo: ribelle, ottuso, subalterno, assistito e collocato nella logica del soccorso al vincitore di turno. È questo lo scenario di fondo, che abbiamo imparato a conoscere e che abbiamo più volte descritto.
Dentro questo schema che può legittimamente definirsi di “democrazia fittizia”, se si escludono alcune battaglie radicali gran parte degli antagonismi o dei movimenti alternativi sono stati per lo più assimilati, digeriti ed eiettati all’esterno secondo modalità che ne sterilizzano in partenza la forza di cambiamento. Basti pensare al movimento di liberazione della donna, ridotto strumentalmente alla proposta reiterata di iniziative che suonano come offesa all’identità delle donne, anziché come riconoscimento delle loro legittime richieste di riequilibrio ed effettiva emancipazione.
Quello che ora emerge in modo clamoroso è che, dopo la perversione del sistema informativo che aveva pompato Beppe Grillo sino all’inverosimile, il personaggio si trovi oggi nella condizione di figurare come “selezionatore” di leadership. In realtà Grillo è un ballon d’essai, un cavallo di Troia utile per assorbire una domanda politica, corromperla irrimediabilmente e quindi consegnarla al controllo verticista del consueto gattopardismo delle nostre classi dominanti.
Non può meravigliare la sua parabola: si prende un soggetto denutrito sul piano della cultura politica, lo si carica oltre misura per dargli la massima amplificazione, quindi lo si reindirizza in termini di normalizzazione. Grillo ha fatto da mallevadore di tale soggetto e, anche a seguito delle questioni personali che riguardano alcune vicende giudiziarie, si è prestato alla bisogna di riconversione del M5S dal “vaffa” al notabilato in gessato.
Da questo punto di vista, non è lontano dal vero chi intravede un nucleo democristiano nel corpo profondo dei 5Stelle e, probabilmente, quello che rimarrà del Movimento – perché siamo ben lontani dalle percentuali del 2018 – mira ad essere una nuova realtà di centro della politica. Il M5S ha dunque un cuore democristiano che si manifesta nel trasformismo opportunistico, secondo il modello crispino ben diverso dai criteri di opportunità proprio del francese Gambetta.
L.O.R. - La vicenda dei due dicasteri di Giuseppe Conte può dirsi emblematica sotto questo aspetto, risultando un unicum anche nel travagliato tourbillon delle composizioni e alleanze a sostegno dei governi italiani: è il solo presidente del Consiglio – a parte il Badoglio del periodo pre-repubblicano – ad essere non solo succeduto a se stesso, ma ad aver guidato un governo con partiti che in precedenza gli avevano fatto opposizione…
G.R. - Andando all’essenziale cosa abbiamo? Abbiamo nel 2018 un M5S che forma un governo con la Lega – l’altro soggetto presunto antagonista, pur con storia totalmente diversa che non sto a riassumere – che inizialmente avanza la candidatura a premier di Giulio Sapelli. Questi è scartato dal Quirinale, che si oppone anche ad avere Paolo Savona come ministro dell’Economia, per cui viene individuato entro i meandri del retroterra burocratico e corporativo un avvocato di provincia, che con un fulminante percorso è assurto a professore universitario dopo la frequentazione di uno studio professionale crocevia di singolari affinità. Giuseppe Conte è dotato di ambizione, ma appare soggetto affidabile e possibile da controllare.
Così entra a Palazzo Chigi e rivela la sua inconsistenza politica, pressato com’è dalla compromissione dei 5Stelle con la Cina (da qui l’affrettata sottoscrizione dei protocolli sulla Via della Seta). Dopo di che lo stesso Conte sui media si trasforma – secondo la lectio di Eugenio Scalfari – nell’Aldo Moro degli anni Duemila e, dopo la pazza crisi di agosto aperta dalla Lega di Matteo Salvini, va a presiedere il governo sostenuto stavolta dal PD di Nicola Zingaretti, che si adatta al “machiavellismo” di Matteo Renzi, e da Leu.
Il Conte bis si trova pertanto a gestire la pandemia, un governo del virus verso il quale se all’inizio si può concedere il beneficio della imprevedibilità dell’evento, in seguito si rivela per tale: un concentrato di inefficienze, vanità e giri a vuoto assolutamente nocivi per la collettività. Fin dall’esordio della diffusione del virus in Italia, a dire il vero, il governo dimostra d’essere più concentrato sul modo di presentarsi sulla scena mediatica che non ad essere operativo sul piano del contrasto all’epidemia.
Ricordiamo fra l’altro come si prodighi nel lodare l’operato dei cinesi che, invece, come abbiamo riportato anche su «Agenzia Radicale», hanno la grande responsabilità di non aver informato per tempo il resto del mondo. E anzi, mentre bloccavano i voli dall’area di Wuhan dove il virus si era manifestato verso le altre città della Cina, consentivano a fine 2019 che si partisse alla volta delle nazioni occidentali infettando così mezzo mondo.
I limiti governativi diventano evidenti a partire dalla scorsa estate, preceduta dall’imbarazzante passerella degli Stati generali per la ripresa, tant’è che se un altro rimprovero va rivolto a Matteo Renzi è di aver atteso dicembre 2020 per formalizzare la crisi di una compagine ormai indifendibile. Già alla fine dell’estate, infatti, viene intuito che, dato il rischio di una seconda ondata di contagi, bisognava puntare tutto sui vaccini e sui siti e gli operatori sanitari che dovevano provvedere alla vaccinazione. Tant’è che Stati Uniti e Gran Bretagna si sono subito preoccupati del loro reperimento, mentre l’UE tardava e l’Italia nemmeno ne parliamo.
O meglio, di parole se ne dicevano tante – evocando e esaltando il polo di Pomezia (che faceva il suo lavoro con discrezione comunque) o autoelogiandosi rispetto agli altri Paesi – ma fatti zero. Il premier per tutto agosto e settembre presenziava stabilmente in televisione, con il portavoce Casalino che produceva in serie filmati e immagini dell’ “avvocato del popolo” (e verrebbe da dire che se questo è l’avvocato, meglio non far parte del popolo). Passano quasi sei mesi – da settembre a febbraio – senza che ci si preoccupi minimamente di allestire un piano di vaccinazioni operativo ed efficiente.
Nel frattempo cumula su Domenico Arcuri, presidente di Invitalia una IRI in sedicesimo campione di contro-produttività, una miriade di incarichi: dall’approvvigionamento di DPI e banchi scolastici, alla gestione della protezione civile e delle vaccinazioni. Giunti a marzo 2021, Arcuri è messo da parte dal nuovo governo di Mario Draghi perché rivelatosi assolutamente incapace.
E il premier Conte porta una precisa responsabilità al riguardo, perché non ha fatto che affidare commissariamenti ad Arcuri nonostante gli esiti sempre deludenti manifesti già dai primi mesi del 2020. Se noi oggi ci troviamo impreparati e tardiamo nelle vaccinazioni è proprio a causa della non-gestione dei mesi passati: non aver preparato gli hub e avendo mancato di agire con risolutezza sul piano dell’organizzazione del personale sanitario costituisce una gravissima responsabilità morale per quel che riguarda gli esiti nefasti della malattia.
Oggi il premier Draghi ha dovuto re-inventare il piano vaccini, affidare la logistica dei rifornimenti a un generale e pressare Bruxelles per ottenere i vaccini. E naturalmente, in quanto ex presidente della BCE, Mario Draghi ha maggior voce in capitolo perché gli basta alzare il telefono per dialogare da pari con le cancellerie europee. A Giuseppe Conte chi lo ascoltava? Di certo non bastava ritrarlo nei documenti filmati allestiti da Rocco Casalino come figura splendente. Intanto proprio questo personaggio è oggi ripescato, con il concorso dei media sempre compiacenti, per farne il leader del Movimento 5 Stelle.
È il rappresentante principe dell’anti-politica, del contrario di quello che dovrebbe essere la politica in termini di responsabilità collettiva. E chi gli dà appoggio tra gli altri partiti? Il PD, che avrà pure cambiato segretario sostituendo Nicola Zingaretti con Enrico Letta, ma conferma il rapporto privilegiato che intende instaurare con questo attore politico senza storia, che non ha mai fatto lotta politica e che non si sa nemmeno a che titolo parla. C’è quindi una chiara linea di continuità con l’approdo “discendente” dall’alto, che non ha più forma partitica – in quanto i partiti sono stati e si sono distrutti – ma quella delle linee corporative, oltre che le sotto-linee di stampo clanistico riferite ad associazioni sotterranee che riforniscono appunto questa linea di continuità con il blocco dominante di sempre.
L.O.R. - Appunto per la sua identità di riferimento della stratificazione profonda dei condizionamenti corporativi, a Giuseppe Conte occorrerebbe guardare forse con un senso di maggior preoccupazione. Come dici è innanzi tutto espressione dell’anti-politica e se la politica è analisi, capacità di controllo e di proposta per la soluzione dei problemi, l’ex presidente del Consiglio incarna l’esatto contrario. I due anni del suo governo vanno in direzione opposta, perché sono contraddistinti dal procrastinare e non prendere decisioni, con un’accentuata tendenza a concentrare potere indipendentemente dalla capacità e dal merito nell’operare per il meglio.
Per quanto riguarda poi il credito che a Conte dà il PD, a me lo fa avvicinare per certi versi ad Alberto Fujimori l’ex presidente del Perù degli anni ’90. Anche lui salì al potere grazie all’apertura di credito fornitagli dall’APRA, i cosiddetti “apristi” dell’Alleanza Popolare Rivoluzionaria Americana espressione del centro-sinistra della nazione sudamericana. Lo preferirono al liberale Vargas Llosa e Fujimori, il “tecnico” nippo-peruviano venuto dal nulla, convertì quell’elezione in una dittatura che durò dieci anni per terminare nei modi che conosciamo. Ecco, ora il PD conferma l’intenzione di instaurare un rapporto privilegiato con Giuseppe Conte, in quanto neo leader del Movimento 5 Stelle, avendo come primo obiettivo la convergenza per eleggere il prossimo presidente della Repubblica disponendo della maggioranza dei seggi in Parlamento.
Ciò nonostante gli evidenti problemi che una scelta del genere comporta, considerato l’anti-parlamentarismo dei 5Stelle che è stato avventatamente sposato da un PD che – solo una manciata di mesi fa – si batté contro la demagogica riduzione del numero dei parlamentari, dietro la quale muoveva l’attacco alla democrazia parlamentare a vantaggio di potentati sempre più auto-referenziali. Come mai il PD si colloca in questa posizione, disposto a un accordo come che sia con una forza politica in cui sono presenti notevoli criticità, a cominciare dall’ambiguo rapporto con la potenza cinese tuttora pervicacemente elogiata da Beppe Grillo?
Ed è paradossale che il PD si agiti e sbracci in nome della democrazia, criticando ogni relazione con l’ambiguo leader ungherese Orban (fino a ieri parte del Partito Popolare Europeo), mentre non si preoccupi affatto di allearsi con quanti sponsorizzano il modello autoritario di sfruttamento schiavistico della Cina del presidente a vita Xi…
G.R. - È evidente che il PD ha costruito un inutile come Salvini quale incarnazione del “fascismo che avanza” al solo scopo di compattarsi. Se il fascismo è un dramma vero, identificarlo con il leader della Lega significa però scadere nella farsa totale e perdere ogni minima credibilità. Aggiungo che il comportamento del PD fa parte di una lunga storia, che ha la sua rappresentazione in questi passaggi elementari. Crolla l’impero sovietico e il Pcus, crolla in Italia il Pci e, dopo la Bolognina, muta pelle in Pds-Ds, rifiutano di affrontare la “questione liberale” dopo di che si barcamenano in chiave di subalternità a qualunque situazione. Prima subalterni alle corporazioni, alla tracimazione di potere della magistratura e alla pervasività del sistema dell’informazione; poi la subalternità al mondo finanziario, consentendo alle operazioni speculative delle finte privatizzazioni a vantaggio di oligopoli sotto il controllo estero.
In realtà restano in vita soltanto se occupano posizioni di potere, ma non hanno un’idea che sia una, privi come sono di un progetto politico. Cercano di appropriarsi di alcune proposte, in linea con le battaglie del passato, ma non hanno l’anima per rappresentarle adeguatamente sul mercato politico attuale. Sono come il borseggiatore che, ancora con la refurtiva sotto il braccio, prova a presentarsi come un soggetto cristallino. Deriva dal fatto che si tratta di aggregati politici che ignorano nel profondo la democrazia liberale. Tuttavia, il principale ingrediente è proprio la condizione permanente di subalternità, che è l’unica formula capace di garantirgli la sopravvivenza.
L’esempio peruviano da te evocato può apparire molto lontano, anche se non va trascurato che l’Italia ha molto del Sudamerica. Il richiamo di quella vicenda mi porta a dire che il vero nodo da sciogliere per ridare speranza a una sinistra di democrazia liberale è rappresentato proprio dal PD. Un partito che nega l’aggettivo al quale si accompagna, non è liberale, non si sa se è di sinistra e quel po’ di sinistra che conserva è più che altro da respingere in quanto non serve affatto oggi, ma anzi va in senso contrario a bisogni diffusi.
Chiedi perché il PD opera in tal modo. Essenzialmente per due motivi: sia perché non ha in testa niente e per conservare il potere è disposto a fare accordi con chiunque; sia perché al loro interno hanno le tossine avvelenate di una ideologia aliena dalla democrazia liberale e manifestano un’unica preoccupazione: guai se dovesse emergere un vero soggetto politico liberale, laico e riformatore, socialista, radicale, perché sarebbe letale per loro qualora non si riduca in condizioni di sottomissione come avviene nella rappresentazione proposta sui media di Calenda oggi, così come dei cosiddetti partiti laici (PRI e PLI) ieri obiettivamente succubi del sistema consociativo.
Il vero dramma è il ritardo cospicuo dell’Italia rispetto alla questione liberale, mantenuto inalterato proprio dai comportamenti del PD in questa particolare occasione alla vigilia delle elezioni del prossimo Capo dello Stato. Anche la nomina del successore di Mattarella, fatta in conformità con quelle dei passati inquilini del Quirinale, sarebbe inficiata dal fatto che resterebbe espressione soltanto di una parte politica e non sarebbe un Presidente di garanzia. Si prepara così la strada a uno scontro drammatico, perché contro chi si opporrà a una ipotesi del genere si scatenerà con violenza l’interdizione in quanto l’élite dominante e i suoi referenti politici non possono più permettersi una qualunque alternativa rispettosa della democrazia liberale.
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