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18/11/24 ore

Enrico Letta: unità del vecchio o cambiare rotta al Partito Democratico?


  • Luigi O. Rintallo

Assumere la guida di un partito che da tempo sta sottoponendosi a una lenta eutanasia come il PD, non è certo il massimo. Tuttavia, per Enrico Letta ha rappresentato una soddisfazione non da poco che l’Assemblea nazionale lo abbia votato, praticamente unanime se si escludono due soli voti contrari, dopo che sette anni prima era stato messo da parte nei modi stranoti dall’allora segretario Matteo Renzi.

 

Oggi che Renzi è fuori dal PD, il fatto che Letta sostituisca Zingaretti alla segreteria può apparire un’ulteriore conferma della crisi irrisolta di questo partito. Intanto, per l’anomalia di una chiamata che è stata presentata sui media come estremo salvataggio di una barca alla deriva. Non va dimenticato, infatti, che la sua estromissione da Palazzo Chigi si spiegava – al di là delle ambizioni di Renzi – innanzi tutto a causa della palese incapacità quale premier a dare soluzioni.

 

E poi perché l’improvvisa accelerazione, che ha portato alla sua designazione, scompaginando l’iniziale prospettiva di puntare a una riconferma per Zingaretti, è rivelatrice dello stato in cui versano i rapporti interni tra i vari esponenti simili a quelli dei cortigiani del Rigoletto verdiano.

 

Evidentemente è troppo presto per esprimere una qualunque opinione su come sarà la segreteria di Enrico Letta. Se la storia personale di ciascuno ha ancora un peso, ci si aspetterebbe che per lo meno non sia rinnegato un approccio meno ideologizzato alle questioni di governo, così da emanciparsi dal cedimento alla demagogia che ha contraddistinto l’ultimo anno che ha visto il PD rincorrere i 5Stelle lungo i sentieri dell’assistenzialismo e del giustizialismo.

 

Ricordiamo una nostra intervista a Letta del 2004, il cui titolo era: Chi avrà il coraggio di tagliare la spesa pubblica? («Quaderni Radicali», n. 88) e, in questo senso, non sorprende che nel suo discorso di accettazione Enrico Letta abbia espresso piena condivisione del governo Draghi, contraddicendo da subito il malpancismo mal occultato in precedenza da parte dei dirigenti PD, coadiuvati dall’esterno dagli editorialisti nostalgici del Conte bis.

 

D’altro canto, nello stesso discorso di Letta si avverte il retaggio degli strascichi di una identificazione con il conformismo corrente che, a nostro avviso, rappresenta una delle ragioni profonde della divaricazione fra realtà effettuale e Partito Democratico. Questo retaggio ne frena le prospettive di affermazione, ancor di più forse dei rispettivi passati da ex di post-comunisti e sinistra democristiana, le componenti della fusione a freddo da cui il partito è nato.

 

Meraviglia che un esponente come Letta, pur espressione di una politica non certo aliena dalla frequentazione con gli ambiti di riflessione più precipuamente culturale, riproponga considerazioni ormai oggetto da tempo di ripensamento presso lo stesso mondo intellettuale progressista.

 

Trattare sulla scia della post-ideologia politically correct questioni come i diritti dei migranti, il voto ai sedicenni o le quote di genere fanno collocare su posizioni arretrate un dibattito che altrove in Europa – si pensi al caso dei socialdemocratici danesi della Frederiksen – sta già sperimentando nuove strade, assai meno zavorrate dall’omologazione a un mainstream che spesso provoca effetti di segno opposto a quelli auspicati.

 

Che lo ius soli debba essere il tratto distintivo dei progressisti è in contrasto con le sue criticità, che investono in primo luogo gli immigrati stessi come spiegato su «Agenzia Radicale» da Anna Mahjar Barducci nei suoi articoli già un anno fa. 

 

L’impressione è che Enrico Letta abbia anteposto la necessità di mantenere insieme il più possibile l’aggregato di forze presenti nel PD. Resta da vedere se vale davvero la pena insistere a tenere unito ciò che forse trarrebbe vantaggio dalla soluzione opposta, anche perché così facendo si resta a coltivare il proprio giardino anziché provare a raccogliere frutti nei campi vicini.

 

 


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