Un’ottima analisi del costituzionalista Michele Ainis oggi sul Corriere della Sera riporta all’attenzione la questione del ruolo delle regioni nel sistema istituzionale italiano, profondamente mutato dalla riforma del Titolo V nel 2001.
Una riforma che – scrive Ainis – “ha trasformato le regioni in altrettanti staterelli, ciascuno in grado di legiferare sull’universo mondo, ciascuno armato d’una politica estera al pari dello Stato sovrano, ciascuno addirittura libero di scegliere la propria forma di governo”.
Un tema, quello dei poteri regionali – o meglio del loro esercizio incontrollato e degenerante – esploso prepotentemente di recente in seguito agli scandali sugli sprechi e le spartizioni di risorse pubbliche che hanno riguardato in maniera diffusa le giunte e i consigli regionali del nostro Paese (dal Lazio al Piemonte, dalla Lombardia all’Emilia Romagna, dalla Campania alla Sicilia).
“Il Molise – prosegue Ainis – ha più poteri della California, e i risultati, ahimè, li conosciamo: un’orgia di sprechi e di spreconi”. Ma la critica di Ainis si innesta su una considerazione ben più ampia, e parte da quell’ “eterno vuoto delle riforme” che ha caratterizzato le ultime legislature, compresa quella attuale. Perché l’Italia è irriformabile? Forse per capire questo occorre concentrarsi sulla parabola partitocratrica, spartitoria e compromissoria del Paese.
Lì si trovano le tracce della visione corporativa, subalterna e corrosiva che ha accompagnato dal dopoguerra ad oggi la storia italiana. I gruppi dirigenti si sono formati secondo una logica di cooptazione e senza un reale confronto democratico. Oggi la rete di interessi corporativi non è sradicabile e il tessuto sociale è figlio di questa impostazione.
Le Regioni sono state non un'articolazione federale di uno Stato democratico, ma la reiterazione di un sistema centralistico, spartitorio, illiberale. Con assatanati e famelici azzannatori di denaro pubblico che, per esempio, hanno nel finanziamento pubblico la loro principale fonte di arricchimento.
Le Regioni, la legge elettorale, il fisco, la giustizia: l’incapacità politica di riformare ha toccato una varietà impressionante di materie, compresa la questione carceraria: “Questa scandalosa condizione – continua Ainis – dipende dall’abuso del diritto penale, che ci ha inondato con 35 mila fattispecie di reato, e che s’accanisce nei confronti dei più deboli (gli stranieri formano il 36,7% della popolazione carceraria) senza peraltro migliorare la sicurezza dei cittadini. Ma dipende altresì dalla riforma del 1992, che ha riscritto la Costituzione imponendo la maggioranza parlamentare dei due terzi per varare un provvedimento di clemenza. Sicché l’amnistia è diventata impraticabile, anche se la sollecita il capo dello Stato, come è successo pochi giorni addietro”.
Sulle regioni, comunque, qualcosa sembra muoversi. Dopo il segretario del Pd Bersani – che aveva evidenziato la necessità di rivedere il Titolo V “per mettere un freno alla degenerazione di questo impianto” – anche in altri partiti e nello stesso governo sembra farsi spazio l’idea che una modificazione dell’attuale meccanismo regionalista sia indispensabile.
Il ministro della Pubblica amministrazione e della Semplificazione, Filippo Patroni Griffi ha dichiarato: “La riforma del Titolo V, con la redistribuzione delle competenze tra Stato e Regioni, ha bisogno di significativi ritocchi. I ritocchi sono necessari proprio sul piano delle competenze, perchè ci sono settori come energia, comunicazioni, turismo, grandi infrastrutture che anche negli Stati federali sono rimessi al centro. Quello che sta accadendo in questi giorni, inoltre, dimostra che avere eliminato tutti i controlli probabilmente è stato un errore”.
Resta da verificare, ora, se il governo riuscirà a concretizzare questi buoni propositi, o se mostrerà ancora una volta l’inconcludenza tipica dell’italica Seconda Repubblica.
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