Nelle stime del Ministero dell’Economia, dopo il lockdown imposto per contenere la diffusione del virus cinese, si prevede che il prodotto interno lordo italiano diminuisca nel 2020 dell’8 per cento. Né sembra che le misure finora adottate pongano davvero rimedio agli effetti di tale fosca prospettiva, dal momento che, come può leggersi sul «Sole 24 ore», le domande pervenute dalle imprese per accedere ai prestiti delle banche garantiti nel decreto “Cura Italia” sono duemila.
A dimostrazione, forse, che le condizioni vanno tutt’altro che in direzione di favorire la liquidità, risultando piuttosto motivo di cautela e preoccupazione da parte dei richiedenti, se è vero che il peso delle commissioni bancarie potrebbe raggiungere anche l’11,6% del credito utilizzato.
Quella che va profilandosi all’orizzonte non è dunque una crisi economica congiunturale, ma secondo quanto scrive Stefano Folli può avere l’effetto di “una guerra perduta, le cui ombre si allungherebbero sull'assetto politico-istituzionale”. Se le conseguenze con le quali doversi confrontare sono paragonabili a quelle dell’immediato dopoguerra, non disponiamo però di una classe politica dove figurino personalità capaci di farsi portatori di una visione come avvenne ai tempi di De Gasperi.
Giungiamo a questo difficile tornante della nostra storia già sfibrati da anni di politiche economiche depressive e male attrezzati dal punto di vista dell’efficienza del nostro impianto istituzionale, sabotato dalla deriva corporativa che di fatto ha espanso il suo potere di condizionamento prescindendo da qualunque capacità di governo reale delle situazioni. È il risultato dell’abdicazione della politica, che almeno dal 1989 in avanti non ha saputo individuare un percorso con il venir meno dell’ordine mondiale post-Yalta.
Il tracollo dei partiti di governo della prima Repubblica, vissuto dall’opposizione post-comunista come l’occasione per farsi unico referente politico delle élites dominanti, ha dato la stura allo tsunami dell’anti-politica e permesso la completa lacerazione di un tessuto sociale già gravemente compromesso.
Oggi il PD, sostenuto dalla tela di intrecci sindacal-burocratico-corporativi, reagisce alla crisi limitato dalla sua oggettiva condizione di subalternità che gli impedisce di svincolarsi da un’impostazione di politica economica basata sul “tassa e spendi”, dove l’unica variante consiste nell’ordine delle due azioni: quando ha di fronte la possibilità di durare al governo spende senza badare al “chi paga”, mentre in vista dell’estromissione dal governo crea vincoli soffocanti per la crescita.
Nell’attuale dialettica interna alla maggioranza col M5S, la situazione è alquanto più complicata ma non si distoglie più di tanto da questa dualità. Tutt’al più rispolverano i chimerici fasti di uno statalismo, i cui guasti sono all’origine del capitalismo assistito e monopolistico alieno dal libero mercato che ci contraddistingue, nell’illusoria pretesa di ridistribuire un reddito senza preoccuparsi di favorirne la produzione.
Altrettanto duale è l’approccio che la classe politica nel suo complesso ha nei confronti dell’UE. Due sono infatti i modi di concepirla e di rapportarsi con essa: quello dell’appeasement e quello di un sano, proficuo conflitto che dal dialogo e dal confronto sappia trarre i termini di una convivenza tra pari. Onestà intellettuale vorrebbe che ai due modi si riconosca una uguale rispettabilità, mentre così non è presso la generalità dei media e l’establishment.
Se il primo modo mira a ottenere il massimo dentro i trattati esistenti, senza metterli in discussione; il secondo parte dalla presa d’atto che per la ripresa è prioritario rivedere quei trattati, che fra l’altro hanno mortificato nel corso dell’ultimo quarto di secolo il grande progetto dei padri fondatori dell’unità politica dell’Europa.
Entrambi evidentemente sono sottoposti all’aura del rischio, ma andrebbe riconosciuto se non altro che dell’appeasement prono alle direttive comunitarie conosciamo, in questi decenni, gli esiti: un PIL asfittico, ripetutamente vessato da misure deprimenti che, d’altra parte, non sono nemmeno riuscite a contenere l’aumento della spesa pubblica e del debito conseguente.
Difficile dunque accreditarlo come risolutivo di una crisi che si annuncia quanto mai destrutturante di interi sistemi di vita e che minaccia di allargare enormemente le aree di povertà ovunque. Da più parti si richiede all’UE di compiere un vero e proprio ripensamento della strategia fin qui prevalente, considerando come ha ricordato «Der Spiegel» che dalla risposta che si darà dipende la stessa esistenza dell’UE. A meno che non vi sia chi, fra gli Stati più forti, non pensi sia giunto il tempo di soprassedere dal percorso cominciato coi Trattati di Roma.
Non vogliamo crederlo, anche se le conclusioni del vertice europeo del 23 aprile sono all’insegna dell’attendismo e al governo italiano tocca appendersi ai due aggettivi – “urgente e necessario” – strappati a quaranta giorni dal precedente vertice del 16 marzo e relativi a un ipotetico varo di “recovery fund”.
Non molto, soprattutto dal punto di vista della chiarezza di intenti perché nulla è detto circa l’entità delle cifre da impegnare e tanto meno le scadenze temporali. Per questo convince poco il compiacimento di Gianfranco Pasquino, che evidenzia nel premier Giuseppe Conte l’ennesima metamorfosi da “avvocato del popolo” a “pubblico ministero” di una Unione accusata di inadempienze: ammesso sia vero, non ha condotto ad alcuna condanna esecutiva né a un effettivo ripensamento dei fondamentali della tecnocrazia europea. Il dilemma fra prestiti e investimenti a fondo perduto non è stato sciolto, tant’è che la Spagna ha onestamente riconosciuto che la sua proposta in favore dell’emissione di un’obbligazione perpetua garantita da tutti i Paesi membri non è stata accolta.
Uguale chiarezza non è emersa nelle dichiarazioni del presidente del Consiglio italiano dopo il vertice europeo, come pure dai resoconti giornalistici per lo più propensi a rimarcare svolte epocali forse più utili alla dialettica dentro i partiti di maggioranza che non alla rappresentazione della realtà data.
E proprio qui si inserisce il tema della profonda debolezza del quadro politico odierno, evidenziato anche dal mancato voto in Parlamento alla vigilia del vertice, sostituito da una generica informativa del governo.
Quest’ultimo è fondato su una maggioranza assemblata più per non fare che per fare e ciò costituisce un limite drammatico, aggravato oggi dalle decisioni assunte in stato di eccezione rispetto al nostro ordinamento costituzionale. Uno stato di eccezione che va al più presto superato, riportando alla vita normale non solo i cittadini ma le istituzioni e i partiti. Sempre che si voglia continuare a vivere in una democrazia liberale.
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