Pubblichiamo di seguito l’intervento che Biagio de Giovanni ha pronunciato alla presentazione del libro "l’altro Radicale" (Guida Edizioni; 2018), tenutasi a Napoli il 18 ottobre. Lo Stato-popolo che va affiorando dalla palude in cui è rimasta incagliata la democrazia rappresentativa mostra tratti inquietanti, laddove non si reagisca per dare una nuova prospettiva alla partecipazione responsabile dei cittadini.
Con Geppi Rippa abbiamo un’antica amicizia, oltre che la condivisione di una serie di attitudini grafiche: interviste, discussioni su molti temi. Perciò sono molto contento di questa occasione nella quale torno su alcuni argomenti, cercando di toccare poche questioni essenziali.
Forse sarò fin troppo netto per la necessità di essere anche conciso. Prima Paolo Macry parlava di una mia postfazione appuntita al libro di Rippa, per cui sento il bisogno di chiarire in che senso era una postfazione appuntita. Sono convinto che noi stiamo assistendo alla fine di un mondo. Nel momento in cui uno ha questa sensazione, che poi cercherò di motivare meglio, guarda al passato.
E si confronta con una storia complessa, nella quale c’erano i grandi partiti di massa che sono nati in Italia come in altri Stati europei. Badate il fenomeno interessa i Paesi che hanno vissuto l’esperienza totalitaria – Italia e Germania – perché in Francia la situazione è in parte diversa. Del resto, in nessuna nazione dell’Europa continentale nasce un partito liberale forte nel dopoguerra. In Italia ricordiamo l’esperienza azionista, che in qualche modo poteva ricordare una cultura liberale pura, sia pure con accenti particolari.
Il complesso della storia della prima Repubblica ha visto protagonisti i grandi partiti di massa, e con essi – insisto – le grandi culture politiche che hanno fondato l’Europa dopo la seconda guerra mondiale, questo non va mai perso di vista. Con una tensione dialettica molto forte in Italia, dove è stata molto significativa, con i radicali e il loro ruolo. Radicali che non sono stati mai un partito, ma piuttosto una costellazione nella quale c’erano cose diverse tenute insieme da un atteggiamento culturale comune. Una costellazione diffusa, che viveva la regia e l’egemonia di Marco Pannella che è stato un personaggio che rimane nella Storia d’Italia.
Partiti di massa e radicali vivevano in reciproca tensione dialettica: è qui il motivo che fa “appuntita” la mia postfazione. Nel senso che io non concordo con l’atteggiamento di quanti dicono: vedete dove ci ha fatto arrivare la partitocrazia e il sistema dei partiti? Ecco, non credo che abbia un fondamento reale tale posizione. Tra partiti di massa e la costellazione radicale c’è stata, nel corso della prima Repubblica, una proficua tensione dialettica e quando sono finiti i partiti di massa anche la costellazione radicale si è spenta. Perché la Storia vive di dialettica, non vive di logica analitica, per cui io sto nel giusto e tu stai nell’ingiusto. Ce lo ha insegnato Hegel: la Storia è dialettica.
Queste due entità – partiti di massa e costellazione radicale – sono state, dunque, intimamente legate. E hanno funzionato, senza con questo idealizzare niente perché la storia umana è piena di coni d’ombra. Di sicuro si sono tenuti insieme, facendo funzionare una democrazia di massa. Che non può essere identificata nel liberalismo: non ci affatichiamo su categorie astratte. La democrazia di massa è un fenomeno complicato e complesso, con una infinità di connessioni nelle quali certo il compromesso fra democrazia e liberalismo – proprio quello che oggi sta venendo meno – ha comunque funzionato. Anche se sono tutte giuste le critiche avanzate da Rippa nel libro, per esempio a certe forme del welfare all’italiana dove non si risponde mai alla domanda “chi paga?”.
Personalmente rivendico l’insieme di quella storia, perché attraverso quella tensione fra le grandi culture politiche si è realizzata la fondazione dell’Europa nel dopoguerra. Altro che ridurre tutto al vizio della “partitocrazia”. Naturalmente con questo non voglio sottovalutare la critica alla partitocrazia, alla condizione però che si tenga presente quest’orizzonte: all’origine di quello che sta oggi accadendo non è la partitocrazia, ma ci sono altre cose cui accennerò brevemente tra poco.
Chiedo a Rippa: ti sembra che ci sia un errore di valutazione in questa mia riflessione? Io per molti anni sono stato dentro il Partito comunista e credo che coi radicali vi è stata una dialettica che ha funzionato, perché ha contribuito alla modernizzazione dell’Italia. Col venir meno di questa dialettica, quando i partiti di massa hanno cominciato a defluire, dopo gli anni Ottanta – Macry richiamava il 1989 come data periodizzante – è un caso che la crisi di tutte le aree politiche dei partiti tradizionali comporta anche la crisi dell’area radicale, che si frammenta e si divide?
Invece, nei momenti in cui questa dialettica è stata tesa, cosicché la tensione costringeva i partiti al confronto per cui il Partito comunista – al di là del suo moralismo, perché non dimentichiamo che il segretario Palmiro Togliatti doveva nascondere la sua relazione con Nilde Jotti – dovette prendere posizione nel 1974, quando si celebrò il referendum per abolire la legge sul divorzio.
Questo è stato il “bello” della storia d’Italia. Che poi nei partiti si annidasse, come affermava Giuseppe Maranini, il rischio della partitocrazia diamolo pure per scontato. Ma in ogni operazione umana c’è un inizio e una fine, un cono d’ombra e un cono di luce. Tutto ciò pone un problema di fronte alla situazione odierna e lo pone a quanti sono stati parte di quel mondo e di quelle culture politiche, che sono stati sopraffatti da eventi e non da truffe. Eventi sui quali occorre adesso ragionare.
Non mi sento di discutere oggi sulle categorie: cos’è il liberalismo, cos’è la democrazia… Noi stiamo assistendo all’agonia della democrazia rappresentativa. La mia è una tesi e come tutte le tesi può essere discussa, ma sono profondamente convinto di questo. Quindi, al di là delle discussioni astratte sul rapporto tra liberalismo e liberismo, va preso atto che ci troviamo di fronte a una crisi mondiale, dove l’Italia rappresenta un po’ un laboratorio così come lo è sempre stata nella storia d’Europa: dai Comuni al Fascismo.
Oggi assistiamo – è stato detto questo all’inizio di questa presentazione – al prevalere di “democrazie illiberali”, si sta trasformando lo scenario del mondo e in Italia e io aggiungo: in modo drammatico. Ne dobbiamo prendere coscienza e per questo è molto importante incontrarsi, discutere anche in piccoli gruppi. Perché oggi l’opposizione può essere innanzi tutto culturale prima che politica.
In questo senso la mia postfazione è fin troppo onesta, perché affermo che il nostro mondo è finito e stiamo all’interno di una costellazione che non riesce più a comunicare, che non ha trovato ancora il linguaggio per parlare di questa trasformazione che sta avvenendo. Cosa è accaduto? Nel 1989 cambia la struttura del mondo e questo mutamento chiude la storia del dualismo fra le superpotenze e della prospettiva del comunismo.
Tutto ciò si disfa dopo il 1989 e arriva la globalizzazione, questa potenziale unificazione del mondo dove si è giocata e si sta ancora giocando una grande partita. Come va interpretata la globalizzazione? In Europa si è provato, nel corso degli anni Novanta, a interpretarla – lo dico con la stessa ingenuità che si manifestò nel dibattito al Parlamento europeo dov’ero allora deputato e c’era anche Pannella – come “unificazione del mondo”. Cioè a dire finalmente finisce questa divisione, finalmente la democrazia si espande e finalmente il cosmopolitismo diventa il terreno dove si unifica la storia del mondo. Non era vero!
Non era vero, perché dentro il nuovo scenario sono insorte forze e reazioni di natura diversa, che adesso stanno emergendo con forza. Non siamo di fronte a delle “truffe”, siamo di fronte a dei fatti che stanno periodizzando la storia politica, salvo a vedere che cosa accade in ciascun Paese. Salvo a vedere se questa disgregazione dell’Europa, alla quale stiamo assistendo, avrà il suo esito nel maggio 2019 o si riuscirà a porre un freno a questo processo di disgregazione che è in atto: l’Inghilterra che se ne va, cioè la grande cultura liberale che se ne va. Lasciamo stare che molti – a mio avviso sbagliando – dicono: finalmente gli Inglesi se ne vanno, così potremo fare l’Europa politica.
Con un eufemismo, potrei dire che questa è una posizione molto ingenua: l’Inghilterra è stata un importante polo dialettico in Europa, che ha portato l’eredità di una grande cultura liberale. Questo nucleo centrale attorno alla Germania si sta indebolendo; possiamo essere critici quanto vogliamo verso la Germania, ma senza questo nucleo centrale dell’Europa che cos’è l’Europa? E non a caso all’indebolimento della Germania, corrisponde Viesegrad e cioè l’Europa dell’Est che se ne va per conto suo; corrisponde il populismo italiano che è – per tornare ai temi più nostri – il passaggio dallo Stato Nazione allo Stato Popolo.
Lo Stato Nazione, nel quale si viveva appunto la vicenda dei partiti e la costellazione radicale nella loro reciproca dialettica, è finito. È entrata in crisi la rappresentanza politica, perché la democrazia rappresentativa è in agonia. Oggi è difficile vedere da quali punti possiamo ripartire. Questi sono i nodi che ci troviamo di fronte e rispetto agli Stati Nazione, che sono stati parte tragica della Storia d’Europa ma anche portatori di grandi culture politiche, subentra questa mancanza di mediazione fra Popolo e Stato, fra Massa e Capo. In Italia siamo di fronte all’esperienza drammatica di questi mesi, esprimo com’è ovvio un’opinione che forse può urtare delle sensibilità ma la mantengo perché ne sono sinceramente convinto. La storia passata è davvero passata, bisogna trovare nuovi strumenti per opporsi a questo caos mondiale.
C’è ancora l’Occidente, quando l’America dice che il primo nemico è per essa l’Europa? C’è più una struttura democratico-liberale, questo compromesso fra democrazia e liberalismo che si è realizzata nell’Europa continentale, di natura diversa da quella americana. Ci troviamo di fronte al tramonto di questo mondo, ecco perché lo sento come “passato” e rivendico la necessità di dire che è stato comunque un grande passato. Ma non basta rivendicarlo, perché le ragioni della sua crisi sono profonde e non possiamo immaginare che si possa ritornare indietro.
E che quelle dialettiche che abbiamo vissuto nei decenni lontani possano tornare. Non torneranno più. Allora si tratta di vedere da dove si riparte, soprattutto qui in Europa. Che cosa si mette in campo e, in questo senso, il ruolo della cultura diventa enorme, decisivo. Per tentare di dare un’interpretazione a questi grandi interrogativi sul caos mondiale. Abbiamo tuttavia un elemento che è davvero preoccupante: stanno prendendo piede le “democrazie illiberali”.
Ieri è avvenuto un episodio che è stato liquidato come cronaca dai giornali: il ministro dell’Interno Salvini è andato a Mosca da Putin e ha detto di sentirsi molto più a suo agio in Russia che non in uno qualunque dei Paesi europei. Ci rendiamo conto di cosa significa? La Russia dove si ammazzano i giornalisti che dissentono, dove il dispotismo è in atto.
Ecco, il problema è questo: da dove riprendiamo il filo del nostro ragionamento politico per reagire a tutto questo, senza richiamarci al nostro passato? Questo è il dilemma di fronte al quale ci troviamo. Il libro di Rippa, l’altro Radicale, parla di questo; parla di cosa è stato il radicalismo italiano e al tipo di risposta politica da costruire per fronteggiare questi interrogativi aperti. La speranza è che l’entità della crisi che stiamo vivendo risvegli non i partiti, ma la politica e la cultura.
Perché nella pancia dell’Italia sta passando una subcultura rozza, al di là delle decisioni che si possono prendere sui singoli problemi. Sta insediandosi un’atmosfera chiusa, un’atmosfera di rigetto e di disconoscimento. Siamo tutti interessati a capire come possiamo reagire a tutto questo, che ho cercato di rappresentarvi questa sera in maniera forse anche troppo emotiva.
(trascrizione a cura di Luigi O. Rintallo)
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