La notizia, lanciata dal Foglio e confermata dal Fatto, di una spartizione delle nomine già stabilita dai vertici del Partito Democratico in vista delle politiche del 2013 lascia perplessi. E’ stato un dirigente del partito, rimasto anonimo, a svelare il cosiddetto “patto di sindacato del Pd” volto a ripartire i posti chiave di governo in caso di vittoria alle prossime elezioni.
Pierluigi Bersani a Palazzo Chigi o al ministero dell’Economia, Walter Veltroni presidente della Camera, Massimo D’Alema ministro degli Esteri o Commissario Europeo, Rosy Bindi vicepremier, Enrico Letta allo Sviluppo e Dario Franceschini di nuovo segretario del partito: questo sarebbe il futuro organigramma del potere deciso dai big democratici.
A lasciare perplessi, come dicevamo, non è tanto la decisione di delineare con largo anticipo la composizione di un probabile futuro esecutivo, quanto lo scenario che emergerebbe dalla scelta di determinate nomine e dall’indirizzo politico di fondo.
Spicca la presenza di una “Grosse Koalition”, con la coesistenza di “storici nemici giurati come Bindi e Franceschini o come D’Alema e Veltroni”, che avrebbe lo scopo di “tenere insieme sotto un unico tetto le anime in movimento del Pd (montiani, anti montiani, camussiani e anti camussiani, liberisti e anti liberisti); muoversi con cautela per non compromettere nel 2013 l’alleanza con il Centro di Pier Ferdinando Casini; fare di conseguenza di tutto per non accelerare troppo il percorso che dovrebbe portare da qui alle prossime elezioni alle primarie”.
Parola d’ordine, dunque: restare fermi. Per evitare che la realizzazione del vasto fronte cattocomunista con Udc e Sel possa essere ostacolata dall’attivismo delle diverse correnti interne, si decide di “barattare” il loro silenzio con cariche istituzionali. “Una specie di congresso di Vienna”, come afferma sempre l’anonimo dirigente del Pd: “Un congresso cioè in cui la regola, come nel primo Dopoguerra, sembra essere quella di agire sullo spirito del ‘Conservare progredendo’ e in cui ovviamente i ‘big’, in questo contesto, hanno interesse a mantenere certi equilibri e a non mettere in discussione alcune rendite di posizione”.
In definitiva, il Pd avrebbe stabilito di proseguire nella sua strada classica, quella di una sinistra indeterminata, vaga, fumosa, che pur di non affrontare le questioni che periodicamente le si presentano sul tavolo – si pensi a quella liberale, ancora sconosciuta – si autoimpone un immobilismo culturale, tutt’altro che progressista.
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