Negli ambienti giornalistici sono genericamente note come marchette. Quella però in uso nella Regione Emilia Romagna è un po’ diversa, fatta con tutti i crismi dell’ufficialità e tanto di fattura: il politico di turno conclude un accordo con un’emittente televisiva locale per una “comparsata” in un talk show o per un’intervista, in cambio paga una somma di denaro regolarmente registrata, secondo un tariffario ben definito.
Il tutto è fatto rigorosamente con soldi pubblici: precisamente attingendo a un fondo speciale della regione, destinato apposta per le attività che genericamente possiamo definire di pubbliche relazioni politiche dei consiglieri regionali in proporzione alla rappresentanza del gruppo parlamentare di appartenenza.
In teoria, ce ne sarebbe abbastanza per alimentare le denunce dei privilegi delle caste italiane da parte dei demagoghi in servizio permanente effettivo. In pratica, lo “scandalo” sembra finora abbastanza circoscritto, complice probabilmente il solleone ferragostano o forse il fatto che fra i protagonisti di questo mercato delle ospitate tv ci sia, fra gli altri, anche un grillino d.o.c. del Movimento lussuosamente definito a 5 stelle, in prima linea sul fronte dell'antipolitica: tale consigliere Giovanni Favia. Questi non si nasconde, anzi rivendica con fiero cipiglio la sua scelta, perché “l’informazione non è libera, continuerò a pagare per andare in tv”.
In attesa di sapere cosa ne pensi Beppe Grillo, non è proprio dello stesso avviso "l'Associazione dei giornalisti dell’Emilia Romagna che, preoccupata per le sorti della categoria, si è subito mobilitata esprimendo l’indignazione di rito: “per i comportamenti irrispettosi dei vincoli deontologici e contrattuali tenuti da giornalisti radiotelevisivi del nostro territorio che, secondo quanto riportato da organi di stampa, si sarebbero prestati a fare interviste a pagamento e a ospitare, in contenitori giornalistici come la rassegna stampa, esponenti politici dietro corresponsione di denaro".
Dopodiché è scattato l’invito/esortazione all’Ordine per la consueta e succosa “inchiesta su di un sistema che, se confermato, non può essere definito solo un malcostume in quanto mina le basi della nostra professione, la deontologia, la credibilità del nostro lavoro nei confronti del pubblico".
Come se tutto ciò non sia già avvenuto, e non certo per le interviste a pagamento.
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