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16/11/24 ore

Peppe D’Avanzo, “Play up and play the man”


  • Rugbycale

C'era, in un tempo recente, un uomo dall'aria misteriosa dietro quei baffoni d'altri tempi che spesso imprigionavano un sigaro tra le labbra, dal gradevole accento partenopeo che tradiva le sue origini, i luoghi del suo cuore, e dalla spiccata intelligenza.

 

 

Quell'uomo ha fatto la storia del giornalismo nel raccontare l'Italia, nell'analizzare le qualità e sopratutto i difetti del potere, un “guscio vuoto” (parafrasando il titolo del suo ultimo libro) contenente ciò che resta della democrazia italiana. Un uomo che ha fatto della coerenza, della preparazione, della verifica maniacale delle fonti, il suo metodo di lavoro, la sua forza; un uomo con una smisurata cultura e con un senso del dovere che, era lui stesso a ripeterlo, derivava dalla disciplina che lo sport, sempre praticato e che lo ha sempre appassionato, gli ha infuso sin da ragazzo. Il rugby.

 

Quell'uomo e quella penna, l'unica ad avere un'autorevolezza tale da poter criticare persino la magistratura, ciò che era lo doveva, in buona parte, al rugby; convinto com'era che i principi di questo sport consentissero di “guardare meglio lo stato presente del costume degli italiani”, che veramente questo gioco potesse “migliorare l'Italia”.

 

Era il rugby la chiave: lo si leggeva nella sua passione per questo sport talmente duro da essere il più umano di tutti e che, con le sue “capacità mitopoietiche” permette di interpretare il mondo; un gioco, come lo definiva, “di traiettorie e di pieni” in cui si insegna a rispettare l'avversario pur volendolo sconfiggere, in cui si viene educati ad accettare “serenamente e senza alibi” l'esito di una partita che “apre il solco entro cui si definisce un ethos, un'idea di gentleman, un modo di stare al mondo e con gli altri”.

 

Era esattamente questo Giuseppe D'Avanzo: un gentleman rispettoso e appassionato, un professionista serio ed uno sportivo stoico, grande, roccioso come il fisico che si portava appresso tutti i giorni.

 

Ricordo quando assistemmo ad una partita di Sei Nazioni, contro la Scozia allo stadio Flaminio, e ricordo le tonnellate di sigari che lasciò vicino al suo seggiolino: su quegli spalti soffriva come se fosse in campo a spingere con gli avanti, come quando giocava pilone nella Rugby Partenope.

 

La palla ovale, a D'Avanzo, ha dato tantissimo: al giornalista che ha sviscerato tutti gli aspetti del potere questo meraviglioso sport ha insegnato che nella vita, quella dei valori fondamentali, non esistono mosse furbesche, che l'arroganza del potente non paga, che non esiste “io” in esclusione della potenza del “noi”.

 

Quella maglia bianco-blu della Partenope l'ha indossata fino all'ultimo, sostenendo sempre con fierezza quel numero 3, che nel rugby significa sofferenza, durezza, caparbietà; era uno di quelli che “il pianoforte lo porta”, al contrario dei leggiadri trequarti che “lo suonano”.

 

Come un vero rugbysta, lavorava “seguendo sempre la palla”, senza lasciarsi intimorire dall'enormità del lavoro, dalla grandezza dell'avversario che “più è grosso e più fa rumore quando cade in terra” si dice nel mondo della palla ovale.

 

Era lineare, “spudorato nella sua essenzialità” come egli apostrofava il rugby, la cui comprensione del gioco, dello spirito e della sua nervatura “spiegano, come meglio non si potrebbe, il deficit del carattere italiano” che si esprime nel autoreferenzialità, nella furbizia e nell'inventiva piuttosto che nella lealtà e nella preparazione.

 

Da uomo e da sportivo, aborriva tutto questo ed era convinto che “questo gioco, così estraneo all'identità nazionale, possa offrire un esempio per riformarla”. “Dicono che educhi ma istruisce. Dicono che dia carattere ma accultura. Postula una placenta comunitaria; un pensiero ordinato; paradigmi condivisi senza gesuitismi o imposture. Nessun odio e, per riflesso, nessuna paura”.

 

Questo era Peppe D'Avanzo e in questo modo mi piace ricordarlo, con qualche lacrima ovale schizzata di fango.


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