Libia, che fare? La slogan anni ottanta sulla piaga sociale della droga mutuato per l’occasione è, se necessario, esercizio retorico più che mai sterile, vista l’inestricabilità della matassa che ci regale l’ex colonia italiana. L'Istituto Affari Internazionali ha provato a farne il punto per tracciare una mappa della crisi in vista di possibili soluzioni, in un convegno alla residenza di Ripetta a Roma che ha avuto come ospite il ministro degli Esteri Gentiloni. Il capo della Farnesina si è sforzato di vedere il bicchiere mezzo pieno, anche se le sue parole, improntate al cauto ottimismo, sono apparse più che altro di obbligata circostanza.
La situazione, come ci raccontano le cronache quotidiane, è infatti tutt’altro che esaltante e la strada dell’auspicata stabilizzazione resta impervia, casomai sempre più ricca di ostacoli. Il governo di unità nazionale, calato dall’alto attraverso la mediazione Onu nel dicembre 2015, è in stato vegetativo dalla nascita e fatica a decollare. Per dare la misura delle difficoltà, il poco autorevole premier Serraj, dopo gli accordi stipulati nella città marocchina di Skhirat, si è – diciamo - insediato in qualche forma soltanto a marzo, proprio a causa del’opposizione di quelli che in teoria avrebbero dovuto sostenerlo ma che invece si sono sfilati. In primis, l’altro uomo forte del paese, il generale Heftar, che preferisce il governo di Abdullah al Thinni, rifugiatosi a Beida nell’est con l’appoggio anche dalla Camera dei rappresentanti di Tobruk, seguendo una contrapposizione che punta alla lotta senza quartiere contro le milizie o fazioni islamiste, che a loro volta contano su ciò che resta del Governo di salvezza nazionale istituito a Tripoli nel 2014.
Non meno confuso e contradditorio appare il quadro dipinto dagli attori esterni, al di là del consenso ufficiale al progetto. Regola numero resta quella della sostanziale difesa del proprio interesse. Quello dell’Italia appare forse l’unico un po' più chiaro. “La divisione della Libia è un fatto negativo soprattutto per l’Italia – ha ribadito per l'appunto Gentiloni, sottolineando che “a noi italiani l’unità della Libia sta davvero a cuore”. Sugli auspici altrui non possiamo invece giurarci, perdurando una sostanziale e generale ambiguità. Al momento si registra l’intervento informale e “clandestino” attraverso forze speciali per combattere e sedare prima di tutto, ma non solo, lo spauracchio Isis, in merito al quale il ministro degli esteri a domanda precisa “si è avvalso della facoltà di non rispondere”.
Nel fare questo, ognuno sceglie i modi e le alleanze che ritiene opportune. E se Gran Bretagna e Stati Uniti si sforzano di appoggiare le fazioni vicino al governo riconosciuto all’Onu, la Francia preferisce alleanze variabili anche con gli oppositori del governo Serraj, i quali non aspettando altro che trovare legittimazione e forza contrattuale anche attraverso il credito derivante dai successi su Daesh o Isis che dir si voglia. Così, proprio il ridimensionamento in corso dello stato islamico, visto dai libici come entità straniera, paradossalmente può diventare un ulteriore motivo per inasprire le divisioni tra i contendenti, rendendo oltremodo complicato il ripristino della stabilità.
Quanto alla Russia, il ruolo di inquinatore delle acque le si addice. Basti pensare all’aiuto fornito ai cosiddetti federalisti, in realtà secessionisti, della Cirenaica per stampare moneta, il dinaro libico, in parallelo con quello ufficiale di Tripoli. Comunque sia, la logica di Putin è quella di operare per una mediazione che comunque non vada in conflitto con il propri tornaconto. In tal senso, va a braccetto con l’Egitto, che in qualità di potenza regionale gioca, dopo il colpo di stato che ha deposto il presidente eletto, una partita tutta incentrata ad impedire agli islamisti di avere voce in capitolo, osteggiando le velleità dei Fratelli musulmani che invece sono ben accetti al tavolo del governo Serraj.
In mancanza di sviluppi che vadano nella direzione disegnata a dicembre, la carta dell’intervento militare occidentale potrebbe farsi più concreta, anche se si scontra con notevoli problematiche di diritto internazionale che sarebbe opportuno non trascurare per evitare errori passati. Il primo - come sottolineato nel corso del convegno dello IAI, riguarda l’effettiva presenza di un governo libico riconosciuto e il relativo via libera all’intervento. In proposito, come scritto, si è ancora in alto mare. La legittimazione del governo Serraj, per essere tale, dovrebbe avvenire dal basso; circostanza, questa, difficilmente concretizzabile allo stato dei fatti, data la "devastazione sociale" in atto nel paese che impedisce la pur minima ricostituzione di una di società civile.
La popolazione è infatti alle prese con una serie di problemi stringenti e quotidiani, legati alla crisi economica ed energetica, alla mancanza d’acqua e di servizi, all’assoluta assenza di sicurezza, alla violazione dei diritti umani. Su questi ultimi è opinione diffusa che la situazione legata al rispetto dei diritti umani fa rimpiangere, il che la dice lunga, il regime di Gheddafi. Cosicché non è peregrino affermare, ed è triste dirlo, che in Libia, almeno finora, “si stava meglio quando si stava peggio”.
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