Con l’implosione dell’URSS e la connessa caduta del muro di Berlino si è avviata una nuova fare dei rapporti dell’Occidente europeo e americano, con la Russia che intanto affrontava la nuova situazione nella quale si era trovata a versare; una fase caratterizzata da provvisorietà e precarietà che è difficile oggi stabilire se sia stata superata. Persistono infatti parecchi interrogativi, anche se un dato appare ormai nettamente percepibile: con Vladimir Putin la Russia sta tentando di riprendere l’antico cammino imperiale di grande potenza a cavallo tra Europa e Asia, che fu propria degli zar e proseguì nell’epoca comunista.
Nel nuovo panorama europeo delineatosi nell’ultimo quarto di secolo un elemento della massima importanza è rappresentato dalla paura: il vero terrore degli stati baltici e degli stati slavi che erano finiti nell’orbita sovietica di trovarsi di nuovo dominati dai russi: con la fine dell’Unione Sovietica essi si sono precipitati verso occidente, nella speranza di garantirsi un po’di libertà, di sicurezza e di benessere. Soprattutto sono tutti entrati nella NATO tra il 1999 e il 2004 e tra il 2004 e il 2007 nell’Unione Europea e oggi premono sull’Europa e gli Stati Uniti per una politica di alta vigilanza nei confronti della Russia.
Nella penisola balcanica il processo matura in un tempo successivo ed è ancora incompleto: la Slovenia entra nella NATO nel 2004 seguita nel 2009 dall’Albania e dalla Croazia. Intanto lentamente tutti entrano anche nell’Unione Europea. Diciamo la verità: la Russia, la Russia di Vladimir Putin, tutta questa vicenda l'ha presa male. E l'ha presa male perché la fine del comunismo non ha coinciso con un profondo percorso di libertà.
Da Mosca proviene uno stillicidio di notizie di repressioni delle manifestazioni di libertà, anche nei confronti di neo-oligarchi economici, e il movimento viene controllato con durezza. Nel 1991 si è verificato uno scossone molto rilevante, sulla spinta però per l’indipendenza delle nazionalità, che ha visto la creazione di quattordici nuovi stati, solo una parte dei quali ha aderito alla formazione della Confederazione di stati indipendenti (con sviluppi notevolmente modesti): i paesi baltici e l’Ucraina non hanno mai aderito e la Georgia che era entrata – in circostanze controverse – in un secondo momento (nel 1993) è poi uscita nel 2008.
La sanguinosa repressione russa ha invece stroncato la tentata indipendenza della Cecenia, nonostante dodici anni di guerra tra il 1991 e il 2006. In tale generale contesto appare di tutta evidenza come la repressione interna messa in atto da Vladimir Putin si configuri come una componente indispensabile di quello che è ormai il pienamente conclamato progetto politico di restaurazione di una Russia come grande potenza eurasiatica, un progetto che rappresenta la maggior fonte di consenso popolare, alimentato da una forte spinta nazionalistica di contrapposizione all’Occidente. Di qui la necessità assoluta di ignorare la scelta di libertà e di benessere dei paesi baltici e di quelli dell’est europeo, di evitare che l’adesione alla NATO e all’Unione Europea di questi stati si configuri come strumento di questa scelta di libertà e venga invece presentata come un’aggressione dell’Unione Europea e degli Stati Uniti d’America, sulla scia della vecchia teoria dell’accerchiamento capitalistico e riprendendo temi e argomentazioni della vecchia strumentazione propagandistica dell’URSS.
Basta aprire su internet “La voce della Russia”, in cui si è rifatta la faccia la vecchia ”Radio Mosca”, che dal 1933 esportava nel mondo l’informazione del Partito comunista sovietico e della Terza internazionale. E in effetti questa tesi di un’Europa, instradata su un progetto di grande potenza e tesa a mettere con le spalle al muro la Russia stringendola in una morsa soffocante, fa piuttosto sorridere, di fronte a un continente frantumato, incapace persino di pensare la politica in termini attuali e che stenta persino a dare una mano alle lotte per la libertà in atto ai propri confini.
La scelta fondamentale di Putin spiega sia le sue iniziative per impedire il progressivo avvicinamento dell’ Ucraina all’Occidente, sia la conquista della Crimea (dove sono le basi navali russe nel Mar Nero che col tempo potrebbero diventare basi della NATO - se Kiev entra in questa alleanza, come hanno fatto tutti gli altri all’est) sia la destabilizzazione in atto dei territori ucraini di Donetsk e Luhansk con la rivolta dei cittadini di etnia russa, che Mosca sostiene e che ha messo nel nulla gli accordi firmati a Minsk lo scorso settembre (creazione di un’ampia zona di disimpegno nella zona dei combattimenti ed elezioni nell’Ucraina del sud-est con la legge ucraina).
Il corso inaugurato da Putin non individua, comunque, una strada facile da percorrere per arrivare a costruire una grande potenza regionale. Occorrono buoni rapporti con la Cina e non si sa se basteranno quelli energetici o l’ammodernamento delle comunicazioni ferroviarie o le manovre militari progettate per il Mediterraneo, perché non sembra che i cinesi si possano considerare tanto propensi al sorgere di un forte concorrente in Asia e sono molto attenti e determinati nel gestire i loro affari.
Occorre una ricostruzione dei rapporti con le repubbliche ex sovietiche oggi, ma solo in parte – come si è detto - membri della Confederazione degli Stati Indipendenti, e per niente entusiasti di stringere rapporti sempre più stretti con Mosca. Occorre una politica mediorientale, dove l’appoggio di Mosca è fondato su Bashar al Assad (che a Mosca cerca sostegno) e sull’uranio arricchito fornito all’Iran per lo sviluppo del programma nucleare. Occorre un rapporto con un’Europa che conti poco e in cui attizzare i rinascenti nazionalismi delle Marine Le Pen e dei Matteo Salvini e con la quale comunque esiste un ampio volume di rapporti di scambio che condiziona le iniziative politiche, proprio mentre l’Unione Europea ha ripensamenti sul programma energetico con Gazprom, costringe di fatto la Russia a dichiarare chiuso il progetto South Stream, per la fornitura di gas all’Europa meridionale, mentre si delinea un nuovo progetto di diversificazione delle fonti energetiche, attingendo nei giacimenti dell’ Azerbaijan ed evitando che le condotte del trasporto tocchino comunque il territorio russo.
E in tale complesso contesto arriva adesso il pesante calo del prezzo del petrolio (dai 110 dollari al barile della scorsa estate ai meno di 70 attuali), voluto soprattutto dall’Arabia Saudita, che ne produce in eccesso ma non sembra voler diminuire il volume delle estrazioni per fare concorrenza con altri grandi produttori, come il Venezuela e, per l’appunto, la Russia. La domanda di energia fossile nel mondo è diminuita, gli Stati Uniti si sono resi indipendenti con le estrazioni dalle rocce scistose, l’economia mondiale versa in un momento di debolezza (l’Europa è stagnante, la Cina vede contrarsi il tasso di crescita…).
In breve, Putin si trova ad affrontare una serie di dati negativi che rischiano gravemente di compromettere il suo progetto: le sanzioni economiche imposte a seguito dell’occupazione della Crimea provocano forti perdite di valore del rublo, fughe di capitali, reazioni negative dei mercati; le aggressioni all’Ucraina ne hanno compromesso l’immagine internazionale e ora la perdita di South Stream si somma con il calo del greggio.
L’attenzione perciò dovrà essere massima, in quanto le reazioni del Cremlino possono essere imprevedibili.
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