“Per la prima volta dopo 60 anni le armi non parlano più”. E' quanto ha fermamente dichiarato il ministro degli Esteri del Myanmar, Wunna Maung Lwin, nel corso di un convegno organizzato dalla Farnesina, dal ministero dello Sviluppo Economico, dall'Ocse e da Osservatorio Asia.
Lo spesso guscio creato dal regime militare alla (fu) Birmania pare si stia gradualmente rompendo e il Paese, escluso per decenni da qualsiasi processo di globalizzazione e rinchiuso nel suo rigido e a-democratico assetto politico, si avvia verso una nuova stagione di riforme e di apertura.
“La priorità del governo del Myanmar è la “riconciliazione nazionale”, ha spiegato Maung Lwin, “stiamo lavorando per la pace e abbiamo messo fine a conflitti con 30 gruppo armati presenti nel paese”. Molti prigionieri politici sono stati liberati, sono state indette elezioni aperte e Aung San Suu Kyi - che solo ieri ha potuto ritirare a Strasburgo il premio Sakharov assegnatole dal Parlamento europeo nel 1990, durante quei lunghi 15 anni in cui il regime dittatoriale aveva imposto alla leader dell'opposizione gli arresti domiciliari - è stata eletta in parlamento; sono state riviste le leggi sulle organizzazioni sindacali e sulla censura, le Università hanno riaperto finalmente i battenti.
Insomma, sottolinea il ministro degli Esteri, si vuole “creare una nazione forte e stabile dal punto di vista democratico” puntando a due obiettivi: la pace e la stabilità da un lato, lo sviluppo economico e sociale dall'altro.
E a chi gli chiede un commento sui principi della Costituzione che - grazie ad una norma che vieta a cittadini sposati o con figli di nazionalità straniera di candidarsi a capo di stato – di fatto impedisce ad Aung San Suu Kyi (i cui figli e il cui marito, deceduto nel 1999, hanno nazionalità britannica) di essere eletta alla più alta carica del Paese, il capo della dimplomazia birmana risponde che “spetta alla maggioranza del Parlamento” decidere eventuali modifiche della Carta.
Ciò nonostante, l'Europa e gli Usa, dopo anni di sanzioni e condanne, hanno deciso di dare fiducia a questo cambiamento di rotta birmano: l'Italia, dichiara durante il convegno la ministra degli Esteri Emma Bonino, “è amica del processo di democrazia” avviato dal Myanmar: “voglio riconoscere i passi compiuti – spiega la titolare della Farnesina – perchè la democrazia non è qualcosa che si dà per scontato, per questo bisogna pensare che dobbiamo migliorare anche la nostra”.
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