La nostra prima reazione, come redazione di «Quaderni Radicali» e «Agenzia Radicale», di fronte alle polemiche sorte a seguito prima delle dichiarazioni della premier per commemorare le vittime della rappresaglia delle Fosse Ardeatine e poi di quelle del Presidente del Senato sull’attentato di Via Rasella che la innescò, è stata di constatare quanto sia arretrata la consapevolezza politica rispetto a 44 anni fa.
Così come tocca registrare quale sia il grado di superficialità, di imprecisione e, insieme, di mistificazione che caratterizza - sia a destra sia a sinistra - quanti sono intervenuti, contribuendo più che altro a fare della memoria storica una indistinta poltiglia in cui diventa persino impossibile, se non inutile, provare a individuarne la composizione.
Ci riferiamo, in particolare, a quanto accadde invece nel 1979 dopo che il leader radicale Marco Pannella affrontò il tema della radice violenta della Repubblica italiana, individuando nell’attentato dei GAP comunisti di Via Rasella una sorta di tabe originaria che si nutriva di un “non detto” pregiudizievole per il futuro della nostra democrazia.
Queste le parole pronunciate da Pannella al congresso del PCI e riproposte al al 21° congresso radicale del 31 marzo 1979: “… compagni del Pci, andiamo pure fino alla delazione di massa (...) per combattere le Brigate rosse, ma allora preparate un’altra caterva di insulti a chi vi parla e agli altri. Se non si rifiutano le leggi barbare della guerra rendeteci conto - se siete così feroci contro i Curcio, il loro errore e la loro disperazione - dei 33 altoatesini fatti saltare per aria a via Rasella solo perché portavano un’altra divisa, e per cui sono morti poi i compagni di Giustizia e Libertà e gli ebrei alle Ardeatine! Non possiamo fare la storia senza questi dilaniamenti interiori e senza dire che se si è barbari ed assassini, non è il fatto che la causa sia giusta o meno che ci può affrancare”.
Ne scaturì un ampio e teso dibattito, cui parteciparono politici ed intellettuali, riportato dapprima in cinque fascicoli della rivista diretta da Giuseppe Rippa, «Quaderni Radicali», dibattito curato da Valter Vecellio e quindi edito in volume da Pironti con il titolo Una “inutile” strage?, a cura di Angiolo Bandinelli. Una sua sintesi è stata resa quindici anni dopo in un articolo sul n. 46/47 del 1995-96, riproposto nel 2017 (n. 113) e che segue in calce a questa nota. Dal confronto fra l’ieri e l’oggi si palesa evidente il grado di strumentalità, il pressapochismo, le reticenze e le omissioni colpevoli che contraddistinguono ancora gli odierni interventi (ma si possono definire tali?), sia da parte degli esponenti di partito che da parte di opinionisti e accademici.
L’area del “non detto”, denunciata a suo tempo da Marco Pannella, anziché ridursi pare estendersi ed essere sempre più inquinata dagli intenti mistificatori. Districarsi nelle pieghe di un confronto polemico infettato dai germi della faziosità e del pregiudizio è complicato, ma è il caso di fissare l’attenzione su alcuni punti.
1. Il 24 marzo, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni commemora il 79° anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine con queste parole: “Una strage che ha segnato una delle ferite più profonde e dolorose inferte alla nostra comunità nazionale: 335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani”. Frase anodina che le attira reprimende di storici e commentatori vari. Ma se è vero che la premier ha evitato di chiarire che i giustiziati furono presi tra i prigionieri politici arrestati dai nazi-fascisti e gli ebrei, è anche vero che chi la contesta apporta motivazioni francamente stravaganti. La storica Mirella Serri dichiara: «ma la nostra premier quando, ricordando le Fosse Ardeatine, dice “335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani”, sa di cosa parla? 335 stranieri a Roma non li trovavi nemmeno a pagarli oro… Forse la nostra premier intendeva dire che i nazisti avrebbero potuto arrestarsi tra di loro perché gli unici non italiani erano proprio loro». Replica dal tono inutilmente canzonatorio, che omette di ricordare come l’eccidio delle Fosse Ardeatine fu una rappresaglia per l’attentato dei GAP comunisti a Via Rasella che uccise trentatré militari del corpo di polizia di Bolzano: ammesso che le carceri nazi-fasciste fossero allora vuote, non ci sarebbe stata forse la rappresaglia? Evidentemente essa rispondeva all’atroce legge di guerra imposta dalle truppe occupanti naziste, che vedevano negli Italiani in quanto tali i responsabili tant’è che non la praticavano sui prigionieri degli eserciti alleati. Ancor più singolare il rimprovero mosso su «La Stampa» dallo storico Giovanni De Luna, che critica la premier per aver «chiamato i fucilati vittime “innocenti”. E questo è proprio un aggettivo che non meritano. L'innocenza presuppone il candore di chi viene ammazzato senza colpe, travolto da un evento inspiegabile. Non fu così. Quelli ammazzati alle Fosse Ardeatine erano colpevoli, di sicuro lo erano per chi li uccise». Innocenti, dal punto di vista giuridico non implica “candore” ma semplicemente non colpevoli: e per l’appunto i 335 giustiziati alle Fosse Ardeatine erano senza colpa per l’uccisione dei soldati alto-atesini a Via Rasella.
2. Se gli esempi precedenti provano soltanto un eccesso di risentita capziosità, ben altra consistenza politica ha assunto la polemica sulle frasi del presidente del Senato Ignazio La Russa, pronunciate durante un’intervista e che avevano l’intenzione di andare in soccorso della premier bersagliata dalle critiche. Forse mai difesa fu meno efficace e controproducente, visto che ha aggiunto elementi di confusione e ha mancato di cogliere l’essenziale. Da un lato La Russa ha espresso, in modo grottesco, un giudizio sull’attentato di Via Rasella, definito “una pagina tutt’altro che nobile della resistenza”; dall’altro ha sprecato l’occasione di dire parole chiare al riguardo, preferendo scadere nel ridicolo presentando il battaglione colpito dalla bomba dei GAP come “una banda musicale di semi-pensionati” mentre invece si trattava di un corpo di polizia composto per lo più da trentenni.
Ciò ha dato modo all’opposizione di sinistra di esercitarsi nel ruolo che tanto la gratifica di stracciarsi le vesti per “lesa resistenza”, consegnandosi ancora una volta a una retorica sostanzialmente mistificatoria e persistere nella confusione per cui i comunisti (che fecero l’attentato) sono identificati con l’anti-fascismo. A dispetto della vulgata promossa da cattedratici abusivi, andrebbe infatti ricordato che i comunisti fedeli all’URSS, dal 1939 al giugno 1941, non si opposero affatto al Nazismo, con il quale il dittatore sovietico Stalin aveva stretto alleanza. D’altronde, come certificato anche a livello europeo, comunismo e fascismo sono identiche forme di totalitarismo. E di certo la resistenza di matrice comunista non aveva come obiettivo l’instaurazione di una democrazia, ma la dittatura rivoluzionaria.
3. Sarebbe tempo che sull’attentato di Via Rasella si facesse infine chiarezza. Una volta ammesso che non si trattò di un atto puramente terroristico, ma di un’azione legittima di guerra occorre chiedersi quali fossero i suoi obiettivi strategici. Avvenuto a due mesi dallo sbarco alleato presso Anzio e poco più di due mesi prima dell’ingresso a Roma delle truppe alleate, permangono i dubbi sulle ragioni che mossero i dirigenti del Partito Comunista a promuovere un attentato del genere, pur sapendo che già il 31 gennaio e il 2 febbraio vi erano state rappresaglie che avevano comportato l’eliminazione di dieci prigionieri italiani per ogni tedesco colpito negli attentati partigiani. Per comprenderlo davvero, occorre ricordare che quell’attentato rispondeva ai criteri propri di una organizzazione totalitaria, per la quale il fine giustifica sempre qualunque mezzo. E poiché il fine non era certo quello di un sollevamento della popolazione contro gli occupanti, va ricercato altrove.
Forse proprio nella rappresaglia che lo seguì, che portò a far eliminare ai nazi-fascisti la gran parte degli esponenti di vertice dell'anti-fascismo non comunista detenuti nelle carceri, onde evitare che a liberazione avvenuta potessero poi essere un problema per i comunisti. Morirono anche una trentina di militanti del PCI, ma fu un sacrificio calcolato rispetto ai quasi duecento provenienti dai militari, dagli azionisti e dai trostkisti di Bandiera Rossa tutti avversati dal Partito comunista fedele all'epoca a Stalin. I giovani partigiani comunisti che misero la bomba in Via Rasella furono in definitiva traditi da chi li spinse ad agire, perché li strumentalizzò senza farsi alcuno scrupolo pianificando un attentato che aveva un fine del tutto diverso da quello dichiarato.
Le radici violente dello Stato italiano
di Luigi Oreste Rintallo
(da «Quaderni Radicali», n. 46/47 1996 - ripubblicato sul n. 113, febbraio 2017)
[…] Cominciò tutto con una parentesi. Al congresso del PCI e, poco dopo, il 31 marzo 1979 durante il suo discorso al 21° Congresso del Partito Radicale che si teneva alla “Sapienza” di Roma, Marco Pannella affrontò la questione dell’attentato di via Rasella con queste parole:
"... Apro una parentesi: compagni del Pci, andiamo pure fino alla delazione di massa (...) per combattere le Brigate rosse, ma allora preparate un’altra caterva di insulti a chi vi parla e agli altri. Se non si rifiutano le leggi barbare della guerra rendeteci conto - se siete così feroci contro i Curcio, il loro errore e la loro disperazione - dei 33 altoatesini fatti saltare per aria a via Rasella solo perché portavano un’altra divisa, e per cui sono morti poi i compagni di Giustizia e Libertà e gli ebrei alle Ardeatine! Non possiamo fare la storia senza questi dilaniamenti interiori e senza dire che se si è barbari ed assassini, non è il fatto che la causa sia giusta o meno che ci può affrancare..."
L’intervento innescò un’arroventata polemica con il Partito comunista che, dopo aver accusato il leader radicale di aver fatto un discorso “fascista”, non esitò a querelarlo per lesa Resistenza. Eppure in quelle parole non si legge tanto una provocazione, quanto l’esortazione a scandagliare il nostro passato affinché emergano le ragioni profonde all’origine di tanti dilemmi e ambiguità che hanno accompagnato la nascita della repubblica.
Proprio al fine di sondare meglio le problematiche lasciate intravedere da Pannella, seguì su «QR» (curato da Valter Vecellio) un lungo dibattito, che si protrasse per quasi due anni (dal n. 5-6 al n.11-12) e nel quale intervennero numerosi politici e intellettuali. Gli argomenti trattati - dalla senechiana liceità del tirannicidio, al terrorismo e alla non violenza - favorivano l’assunzione di posizioni estreme. Vi era chi, come Bobbio, invitando a distinguere tra giudizio storico e politico, considerava i trentatré soldati rimasti uccisi “soggettivamente innocenti” e chi, come Guiducci, negava loro ogni pietà in quanto “complici” di violenze che avevano ulteriormente incrudelito il mondo (n. 7); chi, come Stame, ritraendosi da un giudizio sull’attentato, asseriva: “se avessi fatto il partigiano non l’avrei fatto tra le fila comuniste” (n. 8-9) e chi, come Bocca, lo giudicava “necessario” (n. 11-12); chi, come Alfassio Grimaldi, pur riconoscendo nella Resistenza e nel terrorismo delle Br la stessa forma di lotta, contestava l’esistenza di un legame fra loro e chi, come Mughini, trovava che le motivazioni della prima erano di fatto il “bagaglio ideale e psicologico” del secondo, “figlio pressoché diretto del comunismo clandestino e terzinternazionalista, rinverdito e aggiornato dai fasti ‘cattocomunisti’ ed esistenziali della generazione studentesca” (n. 10); chi, come Baget Bozzo, riteneva ormai politicamente matura la causa della nonviolenza (n. 7) e chi invece, come Galli della Loggia, la confinava nell’ambito dell’utopismo (n. 8-9).
Il vivace confronto fu quindi raccolto nel volume Una “inutile” strage? (Pironti, 1982), preceduto da una premessa (A quando la fine dell’olocausto?) di Angiolo Bandinelli, che traeva conclusioni di grande interesse e tuttora utili per comprendere a pieno la portata non solo di quella polemica, ma del fatto storico che la generò e che, per tanti versi, è ancora ben lontano dall’essere totalmente decifrato. Scrive Bandinelli:
«La verità su via Rasella non può essere detta non perché vi sia una ‘verità’ nascosta, ma solo perché l’episodio è diventato emblematico dell’intera vicenda, dell’intera moralità della Resistenza, che è il certo fondamento della Repubblica antifascista».
Dell’antifascismo fonte di legittimazione democratica per i comunisti che la democrazia in realtà ripudiavano, via Rasella è un simbolo cogente e necessario attorno al quale compattare il complessivo fronte della Resistenza. Divenuto l’emblema della lotta partigiana che opera un taglio netto con il passato ed espelle il Paese intero da quello che Vittorini chiamò “l’utero sozzo” del fascismo, all’attentato di via Rasella è toccato assurgere al ruolo di nuovo mito degli italiani. Un mito che non andava assolutamente profanato, se non si voleva pregiudicare la sua pretestuosa funzione: discolpare un popolo dalla macchia dell’entusiastico sostegno al regime e, al tempo stesso, enfatizzare la sua riscossa. Un mito la cui logica non differiva però da quella di altri che l’hanno preceduto: al pari dei miti propagandati dallo stesso fascismo, serviva anch’esso a radicare il consenso attraverso un’azione in definitiva mistificante. Per di più strumentale alle esigenze di una parte (il Pci) a cui premeva, sopra ogni cosa, occultare la sua natura di fazione politica anti-patriottica ed egemonizzata da una potenza straniera ostile.
E, come gli altri miti, fondato sul sangue: lo stesso sangue nel quale, ricorda Bandinelli, il filosofo Carl Schmitt (1888-1985) “individua... un cemento storico dello Stato-nazione”. È il sangue rituale che ritorna nella storia di ogni Paese e che per l’Italia unita è stato versato a Caporetto e a Vittorio Veneto dagli oltre 500.000 soldati morti durante la Grande Guerra, ricordati cumulativamente dal Milite Ignoto. Ad esso, durante il ventennio mussoliniano, vengono affiancati i martiri della Rivoluzione fascista. Spiega Bandinelli:
«Via Rasella cancella e assorbe, insieme, i due grandi simboli di sangue sui quali è stato eretto lo Stato italiano: il Milite Ignoto e i Martiri della Rivoluzione fascista. (...) Tra Vittorio Veneto e la Rivoluzione fascista vi è continuità nella cesura: un risultato che, nel mondo dei riti, è possibile e neppure troppo raro. A sua volta via Rasella, nel momento in cui apre al nuovo, ribadisce la piena continuità col vecchio, il vecchio Stato, di cui assorbe e perpetua i valori».
Nel mancato troncamento dei fondamenti ideali della Repubblica dal passato, risiedono anche le ragioni della vulnerabilità del nuovo Stato. Non aver reciso questo legame e averlo preservato anzi entro lo scrigno di una retorica nobilitante come atto costitutivo del nuovo ordine, ha comportato come conseguenza la messa in quarantena di tutti coloro che, scrutando orizzonti lontani al di là del contingente e dell’immediato, denunciavano il perpetuarsi di una devastante eredità. Un asse ereditario si proietta fra vecchio e nuovo Stato e poggia non solo sull’ammissibilità e necessità della violenza, ma sulla sua collocazione nel cuore stesso delle istituzioni repubblicane.
Di fronte al sopruso la violenza può essere certamente “ammissibile” e “necessaria”, ma questo non vuol dire che si debba fare di questo tipo di violenza un valore. Atto obbligato e non “valore”, la violenza non andava consacrata, come invece si è fatto per quasi mezzo secolo predisponendo le condizioni per cui il partito armato potesse farvi nuovamente ricorso negli anni di piombo in nome della lotta contro nuovi, “presunti” soprusi. Non la strage dei 33 altoatesini, ma la testarda incapacità a metterla in discussione nel corso degli anni ha acceso una drammatica ipoteca per la nostra democrazia. E ne ha frenato l’evoluzione con la zavorra della perversa logica, tipica di ogni sistema autoritario, secondo la quale “il fine giustifica i mezzi”. È potuto così accadere che durante il caso Moro, all’apice dello scontro fra lo Stato italiano dei governi di unità nazionale e le Brigate rosse, non si confrontassero due modelli davvero alternativi fra loro: da un lato come dall’altro un “fine” superiore (lo Stato, la rivoluzione) cancellava il bene supremo della vita.
Tornare a riflettere su via Rasella significa allora ripensare valori e princìpi, permette di tracciare un nuovo percorso della politica che sperimenti la libertà da servitù ideologiche e leggi primitive. In un momento storico come quello che attraversiamo, derivato dall’esaurimento di un modello socio-economico e proiettato verso la definizione di nuove regole istituzionali, è più che mai importante sottrarsi agli opportunismi per ridare spessore e concretezza ai criteri ispiratori del vivere civile. Interrogarsi su mezzi e fini rappresenta un contributo importante in tal senso e basterebbe pensare agli usi strumentali dell’azione penale per capirlo, laddove in nome della lotta alla corruzione si mette a rischio la credibilità della giustizia in quanto tale.
Allora, non porsi queste domande fondamentali, non riflettere testimonierebbe soltanto rinuncia e abbandono. Piace concludere con le parole di Bandinelli, laddove esorta a dar vita a un nuovo modo di fare politica, che prenda le mosse da
«una rifondazione di propositi e di obiettivi, una chiamata a raccolta di volontà per respingere e dichiarare non più accettabili le coordinate di una storia che pretende invece di essere senza alternative. Il problema si pone con chiarezza e semplicità: è possibile individuare e mettere in opera una “politica” che sia fondata sulla vita e non sulla morte, sul diritto e non sulla forza, sui valori e non sullo “scambio”, sulla pace e non sulla guerra? È possibile pensare ed edificare uno Stato diverso?».
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