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18/05/24 ore

Il ‘continuismo’: la regola della democrazia fittizia


  • Giuseppe Rippa

 

 

 

Mentre un’informazione, più che mai dedita a “formare” opinioni anziché fornire dati di conoscenza aderenti alla realtà delle cose, accredita quali novità gli avvicendamenti ai vertici del governo e del Partito Democratico, il direttore di «Quaderni Radicali» e «Agenzia Radicale» Giuseppe Rippa evidenzia come la politica italiana si muova ancora una volta nel solco della categoria che la contraddistingue: il continuismo.

 

Del continuismo sono descritti i tratti e le origini in questo suo intervento che è il punto di partenza e premessa di una riflessione che contiamo di sviluppare in un prossimo libro-intervista, proseguendo il lavoro di analisi e confronto intrapreso in passato. (Luigi O. Rintallo)

 

 

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di Giuseppe Rippa

 

Nel corso del tempo, con il nostro lavoro di analisi politica presentato su «Quaderni Radicali» e su «Agenzia Radicale», abbiamo dato una lettura degli eventi che hanno riguardato il nostro Paese sempre nel segno di un continuismo. Questo continuismo ha una premessa che non possiamo mancare di evidenziare. Nel 1976, quando il Partito Radicale di Marco Pannella si presentò alle elezioni, fu di fatto l’unico movimento che – per quanto nascesse da una costola della sinistra del Partito Liberale – non aveva un congiungimento con il CLN, il Comitato di Liberazione Nazionale dal quale si è originata la Repubblica italiana.

 

Il nostro Paese, sconfitto nella 2ª guerra mondiale, entra nell’era democratica e repubblicana consegnato alla capacità descrittiva e di indirizzo degli Anglo-Americani. Questa situazione ha creato i presupposti di un processo che si auto-legittima. In questo scenario, gli attori della destra vengono riposti nell’oblio e accantonati in un angolo, di fatto mantenuti in vita dal partito di maggioranza – la Democrazia Cristiana – soltanto per poter testimoniare il suo ruolo di centralità nel sistema politico. Una condizione che è durata a lungo, sino a quando la destra non è stata ricollocata dalla scelta di Berlusconi che, tuttavia, non conteneva una capacità di lettura politico-istituzionale: era di fatto un’opzione opportunista che cercava di ricollegare a sé i caratteri tipici di una visione di moderazione che hanno accompagnato il vissuto della società italiana.

 

Questo assetto sociale – nei suoi diversi ambiti politici, culturali ed economici – è andato dunque assestandosi nei termini di una produzione di azione di governabilità. Con il che voglio evidenziare come, in realtà, sono pochi gli attori che si attribuiscono il compito di essere delegati a una funzione di guida del Paese. Il rischio della democrazia conflittuale, come dramma democratico di confronto nell’alveo delle regole dello Stato di diritto, era attenuato da questa azione auto-legittimante di protezione: le oligarchie dominanti – sia politiche che sociali – si attribuiscono questa funzione di tutela verso l’Italia, consegnata a una visione eterodiretta.

 

Il riferimento a questi concetti apre la contestualizzazione all’interpretazione storico-politica che abbiamo più volte espresso, vale a dire appunto del continuismo di fondo che contraddistingue tutte le fasi dal 1945 a oggi. Tale continuismo si muove all’interno delle regole di quella che abbiamo definito “democrazia fittizia”, che è democrazia perché vengono definite una serie di regole del gioco apparentemente riferibili allo Stato di diritto, ma in realtà è fittizia perché tali regole sono private del processo dinamico.

 

Quest’ultimo richiede energie da iniettare e posizionamenti che portano a esercitare delle scelte, che possono sì scaturire dai compromessi ma dovrebbero comunque esprimere delle posizioni. Non a caso siamo andati avanti per decine di anni dentro una dinamica per la quale l’Italia era esposta a una funzione di sottomissione, e quindi di democrazia limitata. Per anni abbiamo discusso del problema del PCI che non poteva andare al governo, perché finanziato da una potenza ostile come l’URSS e quindi l’Italia si privava di quell’elemento di alternativa per cui più parti politiche erano in competizione fra loro.

 

La nostra era dunque una democrazia bloccata, nella quale si era trovata una stabilizzazione con due piani di lettura: quello formale, che proponeva un apparente conflitto; e quello sostanziale, dove si manteneva un profilo sottoposto all’egemonia internazionale del bipolarismo coatto che si tramutava, con accordi sotterranei, in una stabilità concordata e consociativa. Era una concordia, un consociativismo che comportava l’ammorbamento della società e l’immissione di elementi di partecipazione e di rappresentanza determinati dalla funzione esercitata proprio dal sistema oligarchico, consegnato in una gabbia che non permetteva di evadere da questo tipo di dinamica.

 

A conferma di quest’analisi, vi è proprio il modo nel quale si è pervenuti alla messa in pratica del referendum abrogativo, previsto dalla Costituzione sin dal 1948. I referendum restituivano ai cittadini una parziale capacità decidente, ma a lungo non prendono forma sino a che sul tema del divorzio è la DC che sceglie di ricorrere al referendum nel 1974. Nel sistema politico poggiato sul bipolarismo coatto internazionale, il PCI non era affatto interessato a disturbare i percorsi che avrebbero condotto al “compromesso storico”, un’elaborazione ancora più strutturata del governo consociativo dei processi sociali attraverso il quale elargire ai cittadini la minestra predisposta nel loro menù dalle oligarchie dominanti.

 

Questo definisce la struttura portante del nostro Paese, che si reggeva sul mantenere intatto il tasso di incoscienza su quelli che sono gli aspetti stessi della nostra tenuta economica. Il debito pubblico non cresce a dismisura casualmente, ma perché rispondeva alla necessità di mantenere una pax sociale. Ciò è potuto accadere con il tacito consenso delle istituzioni economiche internazionali, come il FMI a egemonia occidentale, e con il contributo dato dal maggior partito di opposizione – il PCI – che era ritenuto “responsabile” perché non si candidava al governo ma si candidava a occupare postazioni che gli consentissero di salvaguardare il suo insediamento. 

 

E questo in attesa di un’evoluzione futura, che per il Partito Comunista si definiva nei termini di una duplice prospettiva: o quella di procedere verso una democrazia reale, ma non si è mai concretizzata perché – come abbiamo più volte sottolineato – presso la sinistra di matrice comunista non si è mai risolta la “questione liberale”; oppure, viceversa, quella di stampo rivoluzionario immediatamente bloccata dal velleitarismo che la contraddistingueva rispetto allo stato delle cose imposto dagli obblighi internazionali, e che pure soggiaceva sottotraccia.

 

Non a caso, quando l’Italia ha dovuto confrontarsi con il terrorismo politico di sinistra e con la radicalizzazione estrema che proveniva fondamentalmente dall’interno dello stesso PCI, si è palesata una surreale rappresentazione nello scenario politico che è servita in primo luogo a comprimere le istanze di modernizzazione emerse nella stagione della lotta per i diritti civili promossa proprio dai radicali. Di fronte all’estremismo il PCI impaurito ha operato con molta fermezza e durezza – ed è stato sicuramente un bene – ma, al tempo stesso, ha accuratamente evitato di ascrivere alla sua storia quella componente “rivoluzionaria”.

 

Negli anni ’70 essa è riemersa, con le sigle del terrorismo brigatista, ed è stata a sua volta congeniale sempre al continuismo, perché ha dato modo al PCI di farsi portabandiera del fronte della fermezza e far fuori così ogni forma di opposizione, a cominciare da quella di matrice democratico-liberale ritenuta dal sistema assai più pericolosa delle formazioni estremiste, neo-fasciste o comuniste che fossero.

 

Il punto di svolta è rappresentato dal referendum del 12 maggio 1974 sul divorzio, al quale si arriva soltanto a causa di una crepa dentro la DC che, persa la sua centralità nella distribuzione delle carte, apre con Fanfani alla consultazione referendaria. La quale era invece da scongiurare per il PCI, che rimedia subito dopo rinunciando aprioristicamente alle possibilità aperte dal risultato favorevole al NO, che aveva reso manifesto come esistesse una maggioranza politica alternativa a quella riunita attorno alla DC.

 

Il PCI porta la responsabilità di aver frapposto un formidabile impedimento ai contenuti di cultura laica e liberale, i quali d’altro canto non erano certo sostenuti e resi vitali dai partiti repubblicano e liberale ridottisi a fare – secondo una battuta allora ricorrente nella polemica radicale  – i “reggipalle esterni del  regime”: i cosiddetti partiti laici (PRI, PLI e PSDI) di fatto si comportavano come orpelli aggiuntivi alla centralità democristiana, accontentandosi di prendere le briciole del regime assistenziale.

 

Tra i due grandi partiti di massa – DC e PCI del “bipartitismo imperfetto” evocato da Giorgio Galli – vi era il Partito Socialista, prima esposto alla sudditanza verso il PCI e poi aggredito e massacrato, perché ritenuto pericoloso per quello che era il grande disegno del “compromesso storico”. A mantenere in vita tale disegno era la convinzione che i due partiti di massa contenevano in sé i fattori per sostenere appunto la democrazia fittizia, concepita in chiave consociativa così come voleva il modello imposto dagli assetti di potere.

 

Un modello rimasto sostanzialmente immutato nel tempo, tant’è che i fenomeni legati alle tante “emergenze” evocate nel dibattito pubblico sono sempre nati per scaricare aspetti rischiosi – qualunquismo, terrorismo, ribellismo – tenuti sotto osservazione ma al tempo stesso coltivati, perché erano facilmente eliminabili dall’agenda politica. Mentre invece era pericolosissimo il percorso di una democrazia matura, che passava attraverso il coinvolgimento e la partecipazione dei cittadini, che non era la partecipazione eterodiretta dagli input dei vertici politici.

 

Un percorso che prese forma attraverso la battaglia dei diritti civili, con la possibilità di trasferirsi anche sui temi dei diritti sociali ed economici, agendo inoltre sugli stessi modelli formativi della società così da sottrarre i singoli soggetti dall’irresponsabilità parassitaria che è servita a creare i presupposti dell’ammorbamento generale in cui ci troviamo.

 

Nel tempo attuale i segni di tutto questo sono rintracciabili nella massa enorme di persone che non vanno a votare, che non sono paragonabili alle masse non votanti delle cosiddette democrazie più mature. Richiamare le alte percentuali di astensionismo di paesi come gli Stati Uniti per ridimensionare l’allarme per il calo dei votanti registrato in Italia nelle ultime tornate elettorali, significa commettere un grossolano errore di valutazione. In America per andare a votare devi costruire un progetto di vita: bisogna iscriversi nelle liste e dichiararsi elettori.

 

Da noi, invece, non è così perché nell’allestimento della democrazia fittizia c’era bisogno di un criterio ampiamente partecipativo, per quanto costruito su un corpo elettorale di massa quanto mai fragile e ignorante, nel senso che ignora le dinamiche del reale processo democratico. Dunque registrare un 60% di astensioni significa avere la rappresentazione drammatica del fatto che il sistema sta cedendo, e quindi diventa indispensabile puntellare il più possibile i presupposti che lo hanno finora sostenuto.

 

Operazione, quest’ultima, che ancora una volta s’indirizza nel senso del continuismo quale elemento costante della storia italiana. Ovviamente – non ce lo nascondiamo – tutto ciò non segue un percorso lineare, perché si nutre di varie contraddizioni. C’è l’orientamento prevalente in gran parte dell’establishment, che trova la sua rappresentazione in quello che ho definito il “partito del Quirinale” da non identificare nel Presidente della Repubblica, ma piuttosto sull’insieme delle realtà eredi del consociativismo derivato dal CLN e che si sono appropriate della legittimazione secondo le regole della “democrazia fittizia”.

 

Verso tali realtà l’insieme delle forze politiche non fa che porsi in termini di sostanziale subalternità. 

 

(disegno di Zuleta caricaturista)

 

 


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