L’editoriale d’inizio mese sul «Corriere della Sera» di Antonio Polito ha dato l’avvio a quella che può ben definirsi la “campagna di maggio” in nome del continuismo. A Polito va il merito di aver dato il “la” alla musica che hanno poi fatto sentire gli altri intervenuti, contrassegnata proprio dal refrain sintetizzato nell’elogio dei poteri neutri espresso nell’articolo del 2 maggio (Il valore del potere neutro).
In cosa consista il motivo ricorrente, lo si è meglio compreso grazie agli altri interpreti come ad esempio Massimo Franco, sempre sul «Corriere» una settimana dopo, oppure Daniela Padoan su «La Stampa»: andando oltre le considerazioni teoriche di Polito sull’utilità delle funzioni arbitrali di istituzioni come il Presidente della Repubblica o la Consulta, è emerso chiaramente come le sperticate lodi per l’operato del Quirinale mirino essenzialmente a farne il punto di forza per bloccare preventivamente ogni riforma della Costituzione.
La campagna in corso assume i contorni di un gioco quasi infantile, visti i suoi caratteri di prevedibilità e ripetitività. Il suo modus operandi è lo stesso che si è visto in altre occasioni e in pratica funziona così: si lancia dapprima un “falso allarme” che esagera un pericolo, per poi torcere e deviare i dati della realtà allo scopo di conseguire il vero obiettivo e cioè la salvaguarda degli assetti consolidati, vantaggiosi al sistema di oligarchie e corporazioni dominante nel Paese.
È significativo che l’azione muova in modo coordinato dai due principali soggetti informativi della carta stampata – proprietà rispettivamente di Cairo («Corriere») ed Elkann («la Repubblica»/ «La Stampa»), esponenti di un coté economico-finanziario di fatto subordinato a interessi esterni – i quali, tramite l’assidua frequentazione dei loro giornalisti nei talk show televisivi, hanno modo di direzionare il confronto pubblico su vasta scala.
Nel caso specifico, la lettura offerta da Polito (ripresa poi dal coro degli altri commentatori) evoca il rischio che i cambiamenti istituzionali in discussione possano destabilizzare la “continuità della storia repubblicana”: questo giudizio, esito di un percorso ragionativo che può apparire misurato, muta quasi immediatamente nella formula presidenzialismo=dittatura che è poi il messaggio finale somministrato dalla propaganda politica.
Una volta additato il “pericolo” si procede quindi alla deformazione e torsione delle evidenze così come si sono manifestate dal succedersi dei fatti, per proporne una versione edulcorata e lontana dal vero. A cominciare appunto dalla positività attribuita alla “continuità della storia repubblicana” (il continuismo più volte richiamato in questa sede da Giuseppe Rippa), che trascura di rilevarne le assolute anomalie e criticità che ci hanno portato all’attuale stagnazione.
La stessa descrizione dei meriti della figura del Capo dello Stato si guarda bene dal tener conto delle trasformazioni intervenute negli ultimi trent’anni, che hanno fatto sì di demolire quel “valore” di neutralità così apprezzato da Polito.
Dopo l’introduzione del maggioritario nel sistema elettorale, i Presidenti della Repubblica sono stati scelti da maggioranze parlamentari frutto di seggi aggiuntivi che non erano espressione diretta del voto dei cittadini e ciò ha finito per incidere anche sul grado di reale rappresentatività della carica stessa.
A questo deve aggiungersi che, dopo l’indebolimento dei partiti e la manifesta subalternità della politica, il Quirinale ha assunto una rilevanza assolutamente sconosciuta negli anni della Prima Repubblica e i suoi inquilini hanno svolto funzioni di referenti e interpreti di quel “partito” che, nel concreto delle contese politiche, realizza un uso strumentale dell’ideale europeista in chiave apertamente restaurativa, come conservazione del patto consociativo tra forze estranee alla democrazia liberale.
Il presidente Mattarella, poiché proviene – come scrive Polito – “dalla cultura politica cattolico-democratica”, è in qualche modo la figura emblematica di tale continuismo restaurativo, in quanto esponente della sinistra democristiana che, per non minare l’alleanza con il PCI berlingueriano, si oppose alla linea umanitaria durante il rapimento Moro.
Diversamente da come lo descrive Polito, tuttavia, è alquanto problematico scorgere negli atti del suo mandato una esemplarità costituzionale, considerata la gestione assolutamente “politica” (già avviata da altri suoi predecessori) delle prerogative assegnategli dalla Carta. A dimostrarlo il fatto di aver fornito alle crisi di governo susseguitesi in questi anni soluzioni continuamente diverse, prescindendo dalla inalterabilità propria dei percorsi giuridico-formali.
In conclusione, la preoccupazione espressa dagli opinionisti circa le modifiche costituzionali è funzionale al desiderio di non cambiare l’assetto del potere in Italia. E si sposa a una congenita avversione nei confronti dell’espressione diretta della volontà popolare, tante volte già espressa in occasione delle tornate referendarie promosse dai radicali.
Stavolta prende la forma della “blindatura” del Presidente della Repubblica, inteso come un baluardo contro una riforma della Costituzione la cui necessità è invece testimoniata dal perdurante stallo in cui ci troviamo da decenni con il ripetuto ricorso a governi non rispondenti ai criteri propri di una democrazia compiuta.
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