Al tempo del referendum sul divorzio del 1974, uno slogan efficace dei fautori del NO all’abolizione della legge approvata nel 1970 fu: “tireranno fuori la foto di tuo figlio per farti votare come vuole Almirante”. Oggi, i promotori dei referendum sulla “giustizia giusta” potrebbero riproporlo in questa veste: “diranno che toghe e tribunali non ti riguardano”, oppure “che codici e pandette sono cose da avvocati per non farti andare a votare”.
E invece votare questi cinque referendum è proprio nell’interesse di tutti, perché significa lanciare un grido collettivo per pretendere finalmente una giustizia che funzioni. La contro-produttività del “servizio giustizia” non si consuma solo negli archivi polverosi dove giacciono per anni le cause, o nelle vite distrutte degli imputati stritolati dagli errori giudiziari o dai teoremi accusatori campati in aria. Ha ripercussioni nella vita quotidiana anche di chi non entrerà mai a contatto con procuratori e giudici.
Succede quando la spesa sanitaria si gonfia fuori misura per le analisi cliniche prescritte in nome della “difesa preventiva” dei medici da eventuali processi per negligenza. Succede quando le opere di utilità pubblica non si fanno perché chi deve decidere teme di incorrere in qualche accusa temeraria, promossa da oppositori. Succede quando la libera iniziativa e il mercato sono sabotati da inchieste prive di giustificazione reale, la cui unica ragione è nell’involontario attacco strumentale e nella voglia di protagonismo di chi le sostiene nelle aule giudiziarie. Succede quando negli istituti scolastici si sceglie di promuovere i somari per evitare le rogne dei ricorsi, quasi sempre accolti da tribunali cavillosi proclivi a soddisfare le pretese degli arroganti. Succede quando i miti e onesti rinunciano a far valere i loro diritti, perché sarebbe inutile attendersi rimedio.
La giustizia negata lascia ferite profonde nel corpo della società e, nell’Italia di oggi, non c’è persona che non ne abbia avuto esperienza direttamente. Sono ferite che hanno deturpato la stessa convivenza sociale e che derivano dalle disfunzionalità prodottesi con il tempo nell’ordine giudiziario, quando si è andato trasformando in potere arbitrario per di più esercitato con sacche di pregiudizio e incompetenza non tollerabili.
I referendum sono una straordinaria occasione affinché dagli elettori possa alzarsi forte la richiesta di invertire la rotta. Ma lo sono, anche e soprattutto, per gli stessi magistrati e avvocati che intendano finalmente scrollarsi di dosso i gravami di una gestione giudiziaria contrassegnata da un marchio di oggettiva inadeguatezza se non nocività per il Paese intero. Non comprendere la portata di questa consultazione referendaria si tradurrebbe nella testarda salvaguardia di privilegi in contrasto con l’interesse di tutti, compreso quello dei soggetti direttamente coinvolti negli uffici delle procure e nei tribunali.
È assai grave che forze politiche e perfino certi ambiti istituzionali si muovano nel senso di contrastare la partecipazione popolare a questo voto. Vuol dire disinteressarsi del tutto di quale grave difficoltà viva il Paese, a causa dei disservizi e dei danni provocati dalla giustizia malata. È augurabile che, scardinando la gabbia che un’informazione omologata e conforme all’intento restaurativo delle oligarchie ha calato, si riesca a calamitare il massimo coinvolgimento dei cittadini.
Se ciò avverrà, essi coglieranno l’occasione offerta e potranno far emergere quali siano l’insoddisfazione e la sofferenza patite. Lo stato di degrado dell’amministrazione della giustizia in Italia è, infatti, paragonabile agli effetti di una lunga catastrofe, per cui nessuno può davvero dirsi incolume.
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