«… E poi non rimase nessuno»: l’ultimo verso della filastrocca di Septimus Winner che ispirò l’omonimo giallo di Agatha Christie, ben si attaglia per quello che sta avvenendo in queste settimane al Ministero di Giustizia guidato da Alfonso Bonafede.
Con le dimissioni del capo di gabinetto del ministro, Fulvio Baldi, sono tre i magistrati funzionari che hanno rimesso i loro incarichi presso via Arenula: sei mesi fa Andrea Nocera, capo degli ispettori, lasciò perché indagato a Napoli, mentre Francesco Basentini si è dimesso da direttore del Dap – carica alla quale il ministro l’aveva preferito rispetto al pm Di Matteo, secondo quanto dichiarato da quest’ultimo su La7 al conduttore tv Giletti – dopo che i giudici di sorveglianza hanno mandato ai domiciliari oltre 400 detenuti, essendo mancate soluzioni alternative.
Le dimissioni del capo di gabinetto Baldi seguono alla pubblicazione sulla stampa del contenuto delle intercettazioni telefoniche dell’ex segretario dell’Anm, Luca Palamara, sotto indagine a Perugia per il caso delle nomine dentro il Csm. La sconvenienza delle conversazioni riportate, con i riferimenti a segnalazioni e raccomandazioni, hanno indotto il magistrato a lasciare l’ufficio sebbene non si profilino veri e propri reati.
Va osservato che anche questi fatti recenti prendono le mosse dalle aspre dialettiche interne della magistratura associata, che si rivelano per quello che sono: una delle ragioni profonde che rischiano di produrre un calo di credibilità della corporazione in toga.
A quanti, tempo addietro, proclamavano orgogliosi: “intercettateci tutti!”, convinti com’erano di non aver nulla da nascondere, le paginate delle telefonate intercorse fra i magistrati che dialogano tra loro hanno svelato una realtà per molti versi deprimente e dimostrato che alla fine tocca anche al più moralista lasciar cadere la pietra pronta a essere usata per lapidare gli altri.
Il cosiddetto “scandalo delle toghe” emerso un anno fa è il crocevia da dove si sviluppano le odierne contese sia fra le diverse correnti, sia all’interno di ognuna di esse. In particolare, come già evidenziatosi alla vigilia della nomina del procuratore di Roma, la corrente di Autonomia e Indipendenza – fra i cui rappresentanti più in vista figurano i magistrati Davigo e Di Matteo – ha manifestato una fibrillazione con ripercussioni non indifferenti nelle tumultuose vicende mediatiche e istituzionali di questi giorni.
A farne le spese è ora il ministro Alfonso Buonafede, che si trova esposto a critiche severe tanto da essere oggetto di una mozione di sfiducia personale. Quest’ultima sarà discussa giovedì prossimo al Senato e, a giudizio di alcuni osservatori, comporta un forte rischio per la tenuta stessa dell’intero governo poiché potrebbe portare alla manifestazione del dissenso interno alla maggioranza.
Molto probabilmente, tuttavia, il compromesso scaturito dalla soluzione trovata sulla Procura di Roma, sconsiglia a Italia Viva di Matteo Renzi di forzare la mano in questa occasione. Dopo tutto, il voto difforme fra Davigo e Di Matteo sul nome di Giuseppe Creazzo – il procuratore toscano che indagò i genitori dell’ex premier – è un indizio che, dentro la corrente, ha prevalso piuttosto una volontà di appeasement.
Resta da vedere fino a che punto vorrà spingersi la parte minoritaria per manifestare il suo disappunto: in fondo i contrastati contorcimenti che si registrano nelle ricostruzioni dei giornalisti, loro storici riferimenti, derivano per lo più da questa situazione.
- Di Matteo vs Bonafede lo scontro tra rappresentanti delle istituzioni si consuma in televisione
di L. O. R.
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