Poco più di due mesi fa, quando l’emergenza del virus cinese era ancora tutta da venire, in un articolo del 25 gennaio evidenziavamo fra le criticità del governo a maggioranza PD-5 Stelle tanto il cedimento a “una deriva anti-parlamentare e tecnocratica”, quanto il rischio che avrebbe contribuito ad allargare la faglia divisiva nel Paese rischiando “di allargare il divario fra le due aree dell’Italia” e profilare nuovi scenari secessionistici fra Nord e Sud.
Allora non si immaginava che esse potessero prendere corpo in così breve tempo. La notizia dell’apertura del reparto di terapia intensiva alla Fiera di Milano, realizzato sotto la supervisione di Guido Bertolaso incaricato direttamente dal presidente della Lombardia, rappresenta – per certi versi – la plastica dimostrazione di quanto abbia pesato la divergenza rispetto al governo Conte 2.
L’ospedale ha potuto essere ultimato in dieci giorni nonostante gli impedimenti (e non con la collaborazione) dell’amministrazione centrale, e questo è un fatto che anche in futuro lascerà un segno al pari dell’elevato numero di morti registrato da febbraio in poi a causa dell’epidemia nelle regioni settentrionali.
Le discrepanze (se non il vero e proprio astio) fra il governo presieduto da Giuseppe Conte e le regioni del nord, rivelatosi anche in questa tragica occasione, sono il risultato di indirizzi politici contrastanti: la disposizione all’assistenzialismo è un contrassegno specifico della maggioranza di governo, che distingue pure il modo di reagire all’emergenza economica derivante dall’attuale situazione.
Finora è prevalsa un’impostazione prevalentemente supina ai condizionamenti degli apparati burocratici, oltre che una preconcetta distanza dalla comprensione delle realtà proprie del lavoro autonomo. Basti pensare alla farraginosità delle procedure ideate per il sostegno alle attività d’impresa, con il vincolo di una diminuzione del 33% nei primi tre mesi dell’anno quando il problema sarà quasi sicuramente il fatturato zero dei prossimi mesi.
Durante questo drammatico frangente, molte delle difficoltà riscontrate nel fronteggiare la prima fase dell’epidemia scaturivano dal confuso rapporto tra enti locali e amministrazione centrale, ereditato dalla riforma costituzionale sul Titolo V varata dal governo dell’Ulivo nel 2001.
Tuttavia, va riconosciuto che le forzature operate in queste settimane non hanno certo contribuito a diradare la confusione: tutt’altro. Permane di conseguenza la perplessità se sia davvero saggio astenersi dall’intervenire per modificare l’assetto del ponte di comando della nave, visto che è proprio in quella sede che le manovre condotte paiono risultare più controproducenti che utili.
Certo è che se non si registrerà in tempi brevi per lo meno una netta inversione di marcia, sia nei comportamenti di tutti che nell’approccio alle situazioni determinate dallo stato di crisi, difficilmente potranno delinearsi prospettive di ripresa per il Paese. E patiremo tutte le conseguenze negative delle scelte operate in politica interna ed estera, a cominciare dalla subalternità inerte dimostrata nei confronti di un processo di unione europea consegnato ai limiti – prima psicologici che politici – di una visione tecnocratico-finanziaria incapace di proiettarsi davvero verso il progetto originario profilatosi nel dopoguerra.
La sfida di oggi consiste proprio nel fare di questa crisi la spinta propulsiva per riconsiderare le prospettive future, alla luce di mire ben più ambiziose per la politica dell’Europa e dell’Occidente nel suo insieme. Ma in primo luogo serve che ci sia chi la sfida sia capace di coglierla.
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