Se non ci discostiamo dalla rappresentazione fornita dai media della politica italiana, restiamo confinati nella sua versione “cabarettistica” per cui davvero pensiamo che i suoi attori corrispondano agli attori del Bagaglino. Va detto che ciò risponde a una precisa volontà per ridurre gli spazi della dialettica democratica e che è portata avanti dai veri detentori del potere interessati a coltivare l’anti-politica allo scopo di conservare lo status quo che garantisce a finanza assistita e apparati corporativi il loro "spazio libero".
È chiaro, tuttavia, che in questo modo diventa persino impossibile avere cognizione delle poste in gioco in questo momento storico, quando in assenza di un nuovo ordine si è come in una barca senza timone abbandonata alle correnti. Possiamo provare a scorgere qualche vago profilo di quel che ci attende collegando tra loro circostanze e interventi dell’ultima settimana.
La ricomparsa di Beppe Grillo come “stratega” del M5S ha attirato l’attenzione di molti, ma resta difficile comprendere in che termini egli si relazioni con il contesto attuale. Certo, non sono mancati quanti hanno insistito sulla sua lunga visita all’ambasciata cinese, ma al di là di qualche pezzo folklorico non si è andati.
Se, però, partiamo da una considerazione di Paolo Guzzanti riportata recentemente sul «Riformista» che si occupava di spiegare il retroterra dell’inchiesta Mani pulite, è possibile svolgere qualche riflessione ulteriore. Guzzanti osservava come, dietro l’avvio di Tangentopoli, abbia giocato un ruolo non da poco la diffidenza USA verso democristiani e socialisti, sospettati di volersi in qualche modo “sganciare” da una troppo rigida dipendenza. Nel 1992, con la presidenza Clinton, questa insofferenza avrebbe favorito una sorta di “investitura” nei confronti dell’ex Pci dopo il tracollo sovietico.
Tale lettura confermerebbe il dato sostanziale che contraddistingue gli ex comunisti italiani, e cioè una permanente condizione di subalternità. La costituzione dell’Ulivo e il reingresso degli ex democristiani con Romano Prodi avrebbe determinato una inversione che ha puntato soprattutto sul progetto dell’Unione europea. Con un duplice scopo: in primo luogo preservare l’assetto delle élites dominanti nel Paese e, in secondo luogo, collegarsi a doppio filo con l’asse franco-tedesco nel tentativo di svolgere un ruolo più incisivo nello scenario mondiale.
La crisi seguita al 2007 e il ridimensionamento delle promesse della globalizzazione hanno segnato un punto di svolta importante. Ed è proprio al suo culmine che cresce e monta sempre più a livello mediatico il movimento di Grillo. La sua azione ha contribuito certamente a un’ulteriore destabilizzazione degli equilibri politici interni, facendo fra l’altro saltare anche quel minimo di alternanza rappresentato dal bipolarismo fra centro-destra e centro-sinistra al governo. Prevalentemente fasullo, senza dubbio, ma poteva essere un primo punto di partenza per impostare una dialettica più rispondente ai criteri delle democrazie europee.
A lungo, nel corso dei primi anni di esistenza del M5S, esso si è caratterizzato per la contestazione dell’Euro e della tecnocrazia europea, raccordandosi in qualche modo con le insofferenze d’oltreoceano. Dopo le elezioni del Parlamento europeo del 2019 assistiamo invece a una vera e propria conversione a U e, all’apertura della crisi di agosto, Grillo alla fine spinge per l’alleanza col PD e mostra di aderire a pieno alle strategie che trovano nell’Eliseo il principale ispiratore. Molte le domande che sorgono: perché questo mutamento?
Da dove muove la convergenza tra 5Stelle e l’impostazione prodiana, caratterizzata dalla comune empatia verso la Cina? E soprattutto, non c’è il rischio di una clamorosa intempestività, tenuto conto del velleitarismo insito in una Europa che si allontana pericolosamente dall’Occidente e accondiscende al capitalismo autoritario orientale?
Come si vede, la matassa è ben aggrovigliata tanto più che anche sull’altro fronte politico – il centro-destra a dominanza sovranista – non sono poche le incertezze e le contraddizioni al riguardo, a partire dagli ambigui rapporti con i nazionalismi europei e soprattutto con la suggestione esercitata dalle correnti ideali dei populisti russi.
L’Italia rischia così di trasformarsi in un laboratorio dove potrebbero aver luogo sperimentazioni capaci di produrre vere e proprie deformità sul piano geopolitico e, forse, perfino istituzionale.
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