Non crediamo valga la pena di dedicarsi all’esercizio delle congetture su quale sarà la composizione del nuovo governo, se non per rilevare che le urne questa volta non sono state menzognere, ma hanno confermato – e anzi rafforzato - i pronostici della vigilia, nel senso che il 5 marzo ci saremmo trovati con un Parlamento nel quale non sarebbe stata presente nessuna maggioranza omogenea.
Ed infatti la coalizione di destra, la più consistente, non ha raggiunto nemmeno il 40% di voti, i 5 Stelle, come nelle recenti regionali siciliane, sono arrivati primi e anche con una percentuale maggiore di quella che veniva loro attribuita, ma si ritrovano soli, anche se hanno cambiato le loro posizioni (da quella del non volersi accordare con nessuno alla nuova di offrirsi per un governo “di programma”, conforme alla richiesta che viene dal basso), mentre la sinistra è arrivata sconfitta, sia come PD che come LeU. E su LeU pochissime convergenze.
Qualche novità, comunque, c’è stata e non trascurabile, in quanto prima del voto una delle ipotesi possibili per il nuovo governo era quella di una coalizione PD/FI, grande, grossa o piccola che fosse, ma che invece… non ha i numeri. Perché la protesta è stata superiore al previsto e da sinistra non è venuta un’indicazione capace se non di calmarla, almeno di affrontarla. Ed inoltre c’è un altro dato, o meglio una sensazione che sembra emergere nell’ambito delle due forze che tale protesta esprimono e che sono quelle che il voto dl 4 marzo ha premiato: il Movimento 5 stelle, appunto, ma anche la Lega.
Ebbene sia Salvini che Di Maio hanno attenuato la loro polemica nei confronti dell’Europa. E allora di questo atteggiamento occorrerà chiedersi le motivazioni, anche se rispondere a questa domanda non è certo facile. I due leader, poi, non rappresentano affatto forze politicamente omogenee: esse si sono rivelate, infatti l’ultima espressione di componenti storiche del nostro paese: il nord della famosa piccola e media industria e il sud in attesa di quella buona volontà, che alcuni politici si sono già affrettati a promettere.
Un altro aspetto dell’esito delle elezioni di domenica scorsa sul quale occorre soffermarsi è rappresentato dalla misura della sconfitta del Partito Democratico, superiore, come già si è detto, alle previsioni, e insieme Liberi ed Uguali, rimasti ben lontani dal 6% che veniva loro attribuito fino al 3 marzo, e addirittura a rischio di non superare lo sbarramento.
In altre parole, il 4 marzo è risultata sconfitta quella che possiamo definire come l’ultima espressione della storica contrapposizione fra riformisti e massimalisti, che tanta parte ha avuto nella storia della sinistra europea.
Anche in Germania è andata così (e questo conferma la nostra analisi). Ma la socialdemocrazia tedesca è uscita a testa alta dalla sconfitta di settembre. L’SPD ha fatto i conti con la realtà, accettando la rinnovata coalizione con Angela Merkel, e questa linea è stata accettata proprio dal referendum interno di domenica scorsa; e per di più porta con sé la ripresa della politica di integrazione europea, in collaborazione con Emmanuel Macron. E’ la linea della salvezza dell’Europa e con essa tutti gli stati europei dovranno fare i conti, in particolare quelli che da tempo stanno bofonchiando, come la Polonia e l’Ungheria.
Per tornare al PD. In seno al Partito Democratico esiste una tendenza favorevole a tendere una mano a Di Maio, pare, comunque, sconfitta. Ma abbandonare a se stessa la protesta può essere rischioso, proprio per le evoluzioni che in tale condizione essa può subire.
Il PD dovrebbe comunque avere la consapevolezza che si tratterebbe di un passo esso pure pieno di rischi, perché dietro questa protesta sembrano esserci fatti confliggenti. Possono esserci, mischiati, certamente voti arrivati da cittadini insoddisfatti pure dalla scissione di D’Alema e Bersani, ma anche di tanti altri in cerca di legge e ordine e di altri ancora in attesa di un reddito, come nei decenni della prima Repubblica…
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